Ricorso  della  Regione  Friuli-Venezia  Giulia   (cod.   fiscale
80014930327; p. IVA 00526040324)  in  persona  del  Presidente  della
Giunta regionale pro  tempore  dott.  Renzo  Tondo,  autorizzato  con
deliberazione della Giunta regionale n. 1690 del  27  settembre  2012
(doc. 1), rappresentata e difesa - come  da  procura  a  margine  del
presente atto - dall'avv. prof. Giandomenico Falcon  di  Padova,  con
domicilio eletto in Roma presso  l'Ufficio  di  rappresentanza  della
Regione, in Piazza Colonna, 355, 
    Contro  il  Presidente  del  Consiglio  dei   Ministri   per   la
dichiarazione di illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi  1,
2, 3, 7 e 8; dell'art. 9; dell'art. 14, comma 16; dell'art. 15, commi
13 e 22; dell'art. 16, commi 3 e 9; dell'art. 17 del decreto-legge  6
luglio 2012, n. 95, Disposizioni urgenti per la revisione della spesa
pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini  nonche'  misure  di
rafforzamento  patrimoniale  delle  imprese  del  settore   bancario,
convertito, con modificazioni, nella legge 7  agosto  2012,  n.  135,
pubblicata nella G.U. n. 189 del 14 agosto 2012, 
    Per violazione: 
        - degli artt. 3, 4, n. 1 e n. 1-bis, 8, 49 e 54 dello Statuto
speciale; 
        -  degli  articoli  2,  3,  6,  77,  117,  119  e  133  della
Costituzione; 
        - della legge n. 220/2010 e  della  legge  n.  482/1999;  del
d.lgs. 9/1997; 
        - del principio di leale collaborazione, 
    per le parti, i profili e nei modi di seguito illustrati. 
 
                              F a t t o 
 
    Il d.l. 95/2012, intitolato Disposizioni urgenti per la revisione
della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini  nonche'
misure  di  rafforzamento  patrimoniale  delle  imprese  del  settore
bancario (c.d.  spending  review  2)  e  convertito  nella  legge  n.
135/2012, contiene norme volte a ridurre la spesa pubblica. 
    Alcune di esse sono, ad avviso della ricorrente  Regione,  lesive
delle proprie competenze costituzionali, e percio' costituzionalmente
illegittime. 
    Data  la  diversita'  degli  oggetti   sui   quali   tali   norme
intervengono,  il  loro  oggetto   e   contenuto   sara'   illustrato
direttamente in diritto, unitamente allo svolgimento delle censure. 
    Alcune  di  esse,  tuttavia,  sono  impugnate  in  via  meramente
cautelativa, per l'ipotesi che la clausola  di  salvaguardia  di  cui
all'art. 24-bis non sia ritenuta sufficiente  ad  assicurarne  -  nel
momento della presente impugnazione - la non rilevanza per la Regione
Friuli-Venezia Giulia, come meglio illustrato nella seguente Premessa
generale sull'impugnazione degli articoli 4, 9 e 14. 
    La presente  impugnazione  comprende  alcune  disposizioni  degli
articoli 4, 9 e 14. In relazione ad  esse,  tuttavia,  la  ricorrente
Regione desidera sin  dall'inizio  precisare  che  l'impugnazione  ha
carattere subordinato, per l'ipotesi in cui si dovesse intendere  che
esse sono destinate ad applicarsi anche nel territorio  regionale,  o
che comunque  pongano  attualmente  limiti  o  vincoli  alla  Regione
Friuli-Venezia Giulia. 
    Essa infatti ritiene  che  le  disposizioni  indicate  non  siano
destinate  a  vincolarla,  per  il   disposto   della   clausola   di
salvaguardia di cui all'art. 24-bis, secondo la quale "fermo restando
il contributo delle regioni  a  statuto  speciale  e  delle  province
autonome di Trento e di Bolzano all'azione di risanamento cosi'  come
determinata dagli articoli 15 e 16,  comma  3,  le  disposizioni  del
presente decreto  si  applicano  alle  predette  regioni  e  province
autonome  secondo  le  procedure  previste  dai  rispettivi   statuti
speciali e dalle relative norme di attuazione, anche con  riferimento
agli enti locali delle autonomie speciali che esercitano le  funzioni
in materia di finanza locale, agli enti ed organismi strumentali  dei
predetti  enti  territoriali  e  agli  altri  enti  o  organismi   ad
ordinamento regionale o provinciale". 
    Sembra  alla  Regione  che  tale   clausola   renda   del   tutto
inapplicabili ad essa ed alle proprie  autonomie  speciali  tutte  le
rimanenti disposizioni, tranne quelle che a loro volta  (come  e'  il
caso dell'art. 17)  contengano  specifiche  disposizioni  sulla  loro
applicabilita' alle autonomie speciali. 
    Poiche' gli articoli 4, 9 e 14 non  contengono  alcuna  specifica
menzione,  si  ritiene  qui  che  esse  non  siano  applicabili  alle
autonomie speciali, e si ritiene inoltre che  tali  disposizioni  non
pongano giuridicamente alcun vincolo ai modi con i quali in futuro le
"procedure previste dai rispettivi statuti speciali e dalle  relative
norme di attuazione" ne disciplineranno eventualmente l'applicazione:
come del resto codesta stessa ecc.ma  Corte  costituzionale  ha  piu'
volte  sentenziato  (da  ultimo  v.,  in  relazione  a  clausole   di
salvaguardia assai simili a quella  posta  dall'art.  24-bis  qui  in
questione, le sentenze n. 198, n. 193 e n. 178/2012, con richiamo  ai
precedenti). 
    La Regione  ritiene  che  la  non  applicabilita'  delle  cennate
disposizioni alle autonomie speciali,  in  forza  della  clausola  di
salvaguardia, non possa essere contraddetta  da  quanto  statuito  da
codesta ecc.ma Corte con la sentenza  n.  289  del  2008.  Allora  la
clausola di salvaguardia (comma 1-bis del decreto-legge  n.  223  del
2006) era formulata come segue: «Le disposizioni del presente decreto
si applicano alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome
di Trento e Bolzano in  conformita'  agli  statuti  speciali  e  alle
relative norme di attuazione», e la  decisione  ha  ritenuto  che  la
clausola di salvaguardia cosi' espressa fosse «troppo  generica»  per
giustificare una conclusione di  non  applicazione  delle  norme  del
decreto, tanto che essa non risultava neppure precisato «quali  norme
dovrebbero  considerarsi  non   applicabili   alla   ricorrente   per
incompatibilita' con lo statuto speciale e con le relative  norme  di
attuazione e quali, invece, dovrebbero ritenersi applicabili». 
    E' palese che tale non e' affatto la situazione della clausola di
salvaguardia di cui all'art. 24-bis.  Questa  infatti  individua  con
precisione  le  disposizioni   che,   nonostante   la   clausola   di
salvaguardia,   rimangono   applicabili,   con   cio'    individuando
precisamente anche quelle non  applicabili,  costituite  dall'insieme
delle altre (in quanto non diversamente da esse disposto). 
    Inoltre, l'art.  24-bis  non  condiziona  l'applicabilita'  delle
disposizioni  in  questione   ad   un   indeterminato   giudizio   di
compatibilita', ma la esclude direttamente, rinviandola per il futuro
alle "procedure previste dai  rispettivi  statuti  speciali  e  dalle
relative norme di attuazione",  cioe'  ad  ulteriori  e  futuri  atti
normativi, il cui contenuto e' vincolato solo dallo Statuto  e  dalla
stessa Costituzione. 
    Ove invece - e contrariamente  a  quanto  ora  argomentato  -  si
dovesse ritenere che le disposizioni impugnate degli articoli 4, 9  e
14 sono destinate ad applicarsi alla ricorrente Regione, allora  esse
risulterebbero costituzionalmente illegittime, unitamente alle  altre
impugnate con il presente ricorso, per le seguenti ragioni di 
 
                               Diritto 
 
1) Illegittimita' costituzionale dell'art. 4, commi 1, 2, 3, 7 e 8. 
    L'art. 4 e' intitolato Riduzione di spese, messa in  liquidazione
e privatizzazione di societa'  pubbliche.  Il  comma  1  riguarda  le
societa' controllate direttamente o  indirettamente  dalle  pubbliche
amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del  decreto  legislativo
n. 165 del 2001, che abbiano conseguito nell'anno 2011  un  fatturato
da prestazione di  servizi  a  favore  di  pubbliche  amministrazioni
superiore al 90 per cento dell'intero fatturato. La norma dispone che
nei loro confronti si proceda (a) "allo scioglimento  della  societa'
entro il 31 dicembre 2013", o alternativamente (b)  "all'alienazione,
con procedure di evidenza  pubblica,  delle  partecipazioni  detenute
alla data di entrata in vigore  del  presente  decreto  entro  il  30
giugno 2013 ed alla contestuale assegnazione del servizio per  cinque
anni, non rinnovabili, a decorrere dal 1° gennaio 2014". 
    Il secondo comma dispone che "ove l'amministrazione  non  proceda
secondo quanto stabilito ai sensi del comma 1,  a  decorrere  dal  1°
gennaio 2014 le  predette  societa'  non  possono  comunque  ricevere
affidamenti diretti di servizi, ne' possono  fruire  del  rinnovo  di
affidamenti di cui sono titolari", e che  "i  servizi  gia'  prestati
dalle   societa',    ove    non    vengano    prodotti    nell'ambito
dell'amministrazione, devono  essere  acquisiti  nel  rispetto  della
normativa comunitaria e nazionale". 
    Il comma 3, primo periodo, che non forma oggetto  della  presente
impugnazione, esonera dalle  predette  disposizioni  alcuni  tipi  di
societa' (tra queste le "societa' che svolgono servizi  di  interesse
generale,  anche  aventi  rilevanza  economica",  le  "societa'   che
svolgono prevalentemente compiti di centrali  di  committenza"  e  le
"societa' finanziarie partecipate dalle regioni"). 
    Il comma 3, secondo periodo, individua  una  procedura  volta  ad
accertare i casi in cui "per le peculiari caratteristiche economiche,
sociali,   ambientali   e   geomorfologiche   del   contesto,   anche
territoriale, di riferimento non sia possibile per  l'amministrazione
pubblica controllante un efficace e utile ricorso al mercato" con  la
conseguenza  della  non  applicazione  delle  predette  disposizioni.
Secondo il comma 3, terzo periodo, tale procedura comprende un parere
vincolante dell'Autorita' garante della concorrenza  e  del  mercato,
che viene comunicato "alla Presidenza del Consiglio dei Ministri". Il
comma 7, primo periodo, dispone che "al fine di  evitare  distorsioni
della concorrenza e del mercato e  di  assicurare  la  parita'  degli
operatori nel territorio nazionale", a decorrere dal 1° gennaio  2014
le pubbliche amministrazioni e i soggetti  aggiudicatori  di  cui  al
decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, "nel  rispetto  dell'art.
2, comma 1 del citato decreto  acquisiscono  sul  mercato  i  beni  e
servizi strumentali alla  propria  attivita'  mediante  le  procedure
concorrenziali previste dal citato decreto legislativo". 
    Il  comma  8  dispone  che  "a  decorrere  dal  1°  gennaio  2014
l'affidamento diretto puo' avvenire  solo  a  favore  di  societa'  a
capitale interamente pubblico, nel rispetto dei  requisiti  richiesti
dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitaria per la gestione in
house e a condizione che il valore economico del servizio o dei  beni
oggetto dell'affidamento sia  complessivamente  pari  o  inferiore  a
200.000 euro annui. 
    La Regione  Friuli-Venezia  Giulia  ha  da  tempo  costituito  la
propria organizzazione amministrativa, sia diretta che indiretta.  Di
tale  organizzazione  fanno  parte  anche  talune  societa'  da  essa
partecipate, quali -  a  puro  titolo  esemplificativo,  e  per  dare
concretezza alla vicenda normativa  di  cui  al  presente  ricorso  -
INSIEL, istituita a capitale interamente regionale principalmente per
garantisce  la  coerenza  e  l'evoluzione  del  Sistema   Informativo
Integrato Regionale, e Friuli Venezia Giulia Strade S.p.a. costituita
in forza del combinato disposto di cui  all'art.  4  comma  87  della
legge regionale 22 del 20 agosto 2007  e  dell'art.  63  della  legge
regionale  n.  23  del  20  agosto   2007   che   hanno   autorizzato
l'Amministrazione regionale a  costituire  una  societa'  a  capitale
interamente  pubblico  avente  per  oggetto  sociale   esclusivo   la
progettazione, la realizzazione, la manutenzione, la  gestione  e  la
vigilanza  di  opere  di  viabilita'.  Si  tratta  di  societa'   ben
funzionanti, che da  tempo  maggiore  o  minore  costituiscono  parte
integrante dell'organizzazione regionale. 
    Si tratta, cioe', di societa' in  house.  Come  e'  ben  noto  la
societa' in house costituisce uno strumento organizzativo alternativo
alla utilizzazione delle proprie strutture amministrative, dotato  di
maggiore speditezza operativa e flessibilita' organizzativa,  ragione
per cui viene spesso utilizzata per compiti  tecnici,  come  mostrano
gli esempi sopra citati. 
    E' nella natura di tali societa' quella di offrire  servizi  alle
amministrazioni di appartenenza: si tratta, in  realta',  esattamente
degli stessi servizi che verrebbero forniti  dalle  stesse  strutture
amministrative  dell'amministrazione.  Ove  fossero   forniti   dalle
strutture  amministrative,  essi  non   genererebbero   un   rapporto
giuridico con l'ente pubblico; essendo  invece  forniti  da  societa'
costituenti un soggetto giuridico  separato,  la  fornitura  di  tali
servizi da' luogo a rapporti contrattuali. 
    Tuttavia, l'esistenza di tali  rapporti  non  altera  affatto  il
gioco della  concorrenza,  trattandosi  -  al  di  la'  della  natura
formalmente contrattuale - dell'azione di un alter ego  della  stessa
amministrazione. 
    La tutela della concorrenza torna invece in gioco quando  l'alter
ego societario debba a sua volta acquistare beni e servizi da  terzi:
poiche' le societa' in house, al  di  la'  della  natura  formalmente
privata, costituiscono parti della stessa amministrazione, esse  sono
soggette esattamente alle stesse regole di gara delle amministrazioni
di cui sono in sostanza parte. 
    Cio' significa  che,  dal  punto  di  vista  della  tutela  della
concorrenza e' perfettamente indifferente che l'amministrazione operi
attraverso le proprie dirette strutture amministrative  o  attraverso
una propria societa' in house. 
    In  questi  termini,  la  decisione  della  Regione  di   operare
attraverso le proprie strutture  o  attraverso  proprie  societa'  in
house e' una scelta puramente  organizzativa,  che  non  puo'  essere
compressa in nome  della  tutela  della  concorrenza,  in  quanto  la
problematica della concorrenza inizia esattamente al punto in cui  le
scelte  organizzative  dell'ente  finiscono,  e  l'ente,  una   volta
organizzatosi (nell'ambito della propria  autonomia)  utilizzando  le
proprie  strutture   o   utilizzando   strutture   strumentali   solo
formalmente distinte, ha comunque bisogno di ricorrere al mercato. 
    La distinzione  fondamentale  tra  problematica  organizzativa  e
problematica della concorrenza e' pienamente supportata  dal  diritto
dell'Unione europea. 
    Si considerino le decisioni della Corte di giustizia nelle  cause
C-26/03 (Stadt  Halle)  e  C-573/07  (Sea),  che  talora  sono  state
considerate in senso  opposto.  Nella  prima,  una  volta  constatato
(punto  48)  che  una  autorita'  pubblica  "ha  la  possibilita'  di
adempiere  ai  compiti  di  interesse  pubblico  ad  essa  incombenti
mediante i propri strumenti ... senza essere obbligata a far  ricorso
ad entita' esterne", la Corte europea equipara a tale  situazione  il
caso in cui  essa  utilizzi  una  "entita'  distinta",  qualora  essa
eserciti sull'entita' distinta in questione un  controllo  analogo  a
quello che essa esercita sui propri servizi, e tale entita'  realizzi
la parte piu' importante di  tale  attivita'  con  l'autorita'  o  le
autorita' pubbliche che la controllano" (punto  49).  Nella  seconda,
essa ribadisce lo stesso principio con riferimento all'ipotesi in cui
il  controllo  analogo  sia   esercitato   da   una   pluralita'   di
amministrazioni  anziche'  da  una  singola  amministrazione  (v.  in
particolare punti 56 e 57). 
    Dunque, dal punto di vista del  diritto  dell'Unione  europea  il
concetto di "amministrazione" include sia le strutture amministrative
direttamente  dipendenti  dai  suoi  organi  istituzionali,  sia   le
"entita' distinte" sulle quali essa  eserciti  un  controllo  analogo
(cioe' le societa' c.d. in house), senza che sia necessaria per  tale
scelta organizzativa  alcuna  particolare  condizione  di  mercato  o
alcuna particolare giustificazione  diversa  da  quelle  che  guidano
qualunque altra scelta organizzativa. E tale scelta organizzativa non
mette in gioco il problema della concorrenza, che  sorge  invece  non
appena la stessa amministrazione (sia come strutture dirette che come
entita' collegata) si  rivolga  all'esterno  per  acquistare  beni  o
servizi. 
    Tale  e'  dunque  il  concetto   di   concorrenza   nel   diritto
dell'Unione. E poiche', come codesta ecc.ma Corte  costituzionale  ha
sancito sin dalla sentenza 14/2004 "dal punto di  vista  del  diritto
interno, la nozione di concorrenza non  puo'  non  riflettere  quella
operante in ambito comunitario" (punto 4  in  diritto),  tale  e'  la
nozione di concorrenza anche nel diritto italiano. 
    Da questo punto di vista, non sarebbe rilevante replicare che  il
legislatore italiano puo' dare alla concorrenza una  tutela  maggiore
di quella imposta dal diritto dell'Unione: perche' non e' in gioco il
grado  di  tutela  della  concorrenza,  ma  il  concetto  stesso   di
concorrenza, che non comprende il fenomeno. Ove il fenomeno ha natura
puramente organizzativa, e  non  rileva  dal  punto  di  vista  della
concorrenza - la quale, come detto, nasce  dopo  l'organizzazione,  e
riguarda l'azione all'esterno - non vi  puo'  essere  "tutela"  della
concorrenza, ne' piu' ampia ne' piu' ristretta. 
    Si noti che la basilare distinzione ora richiamata  e'  da  tempo
nota anche nella giurisprudenza del  massimo  giudice  amministrativo
italiano, che sin dal 1998 ha affermato i seguenti principi: 
    "L'organizzazione  autonoma   delle   pubbliche   amministrazioni
rappresenta un modello distinto ed alternativo  rispetto  all'accesso
al mercato. [...]. La tutela comunitaria del mercato non interferisce
sino a disconoscere ai singoli apparati istituzionali ogni margine di
autonomia organizzativa nell'approntare la produzione e l'offerta dei
servizi e delle prestazioni di rispettiva competenza. Pertanto non si
spinge sino a giustificare un sindacato sulle  scelte  legislative  o
amministrative che consentano ai pubblici  poteri,  nel  produrre  ed
offrire servizi o beni, di  optare  per  schemi  di  coordinamento  e
formule    organizzatorie,    teoricamente    alternative    rispetto
all'acquisizione delle prestazioni destinate alla  collettivita'  per
il tramite del mercato [...].  Se  la  costituzione  di  un  soggetto
dedicato e' idonea a garantire economie di scala, riduzione dei costi
o razionalizzazione del bacino di utenza, l'opzione dell'ente  locale
non potrebbe esporsi ad alcuna censura  solo  perche'  escludente  il
ricorso al confronto competitivo. [...]. Il ricorso  alla  produzione
privata, disciplinato da regole di salvaguardia della  concorrenza  e
l'esercizio  del  potere  di  organizzazione,  sottratto  ai  vincoli
concorsuali o  concorrenziali  validi  per  il  ricorso  al  mercato,
costituiscono due  schemi  distinti  che  vanno  preservati  da  ogni
equivoca commistione" (Cons. Stato, sez. V, 23 aprile 1998, n. 477). 
    In definitiva, l'istituto dell'in house  costituisce  espressione
di  un  principio  generale,  quello  di  auto-organizzazione  o   di
autonomia istituzionale,  in  virtu'  del  quale  gli  enti  pubblici
(soprattutto    gli    enti    locali    dotati    di    un'autonomia
costituzionalmente garantita) possono organizzarsi nel modo  ritenuto
puo'  opportuno  per  offrire  i  loro  servizi  o  per  reperire  le
prestazioni necessarie alle loro finalita' istituzionali. 
    Cio' non significa, ovviamente, che la legge  statale  non  possa
disciplinare determinati aspetti di tali  societa':  quello  che  non
puo' fare, invece,  e'  precluderne  semplicemente  l'uso,  incidendo
sull'autonomia organizzativa  costituzionalmente  riconosciuta  delle
Regioni, ed in  particolare  della  Regione  Friuli  Venezia  Giulia,
superando i limiti dei poteri legislativi riconosciuti dall'art. 117,
commi secondo e terzo, ed in specifica violazione dell'art. 4,  n.  1
dello statuto, che  affida  alla  Regione  la  potesta'  primaria  in
materia di ordinamento degli Uffici e  degli  Enti  dipendenti  dalla
Regione. 
    Si noti che l'art. 4, comma 1, colpisce l'autonomia organizzativa
della Regione in relazione alle  societa'  controllate  "che  abbiano
conseguito nell'anno 2011 un fatturato da prestazione  di  servizi  a
favore  di  pubbliche  amministrazioni  superiore  al  90  per  cento
dell'intero fatturato": e si notera' facilmente che si tratta proprio
del requisito del  realizzare  "la  parte  piu'  importante  di  tale
attivita'  con  l'autorita'  o  le   autorita'   pubbliche   che   la
controllano" che la giurisprudenza comunitaria sopra citata esige per
le societa' in house. 
    Risultano dunque costituzionalmente illegittime, alla stregua  di
quanto ora considerato: 
        - il comma 1,  in  quanto  obbliga  allo  scioglimento  delle
societa' in house, o alla alienazione delle relative partecipazioni; 
        - il comma 2, in quanto in caso  di  mancato  adeguamento  al
comma 1 preclude  l'affidamento  di  servizi  a  tali  societa',  che
costituiscono   meri    strumenti    organizzativi    della    stessa
amministrazione, oltre la soglia prevista dal comma 8; 
        -  il  comma  3,  secondo  periodo,  in  quanto   limita   la
possibilita' di avvalersi delle societa' di cui al comma 1, oltre  la
soglia prevista dal comma  8,  ai  casi  in  cui  "per  le  peculiari
caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del
contesto, anche territoriale, di riferimento non  sia  possibile  per
l'amministrazione pubblica controllante un efficace e  utile  ricorso
al  mercato",  ed  in  quanto  -   aggiuntivamente   -condiziona   la
valutazione regionale di tale  verifica  al  consenso  di  un  organo
statale, quale l'Autorita' garante della concorrenza e del mercato; 
        - il comma 7, primo periodo, in quanto  all'asserito  ma  non
pertinente "fine di  evitare  distorsioni  della  concorrenza  e  del
mercato e di assicurare la parita'  degli  operatori  nel  territorio
nazionale",  vieta   alla   Regione   di   organizzare   la   propria
autoproduzione di beni e servizi affidandoli  a  societa'  in  house,
oltre la soglia di cui al comma 8; 
        - il comma 8, in quanto limita la possibilita' di  utilizzare
lo strumento della societa' in house alla condizione  che  il  valore
economico del  servizio  o  dei  beni  oggetto  dell'affidamento  sia
complessivamente pari o inferiore a 200.000 euro annui. 
    Si noti che le predette  disposizioni,  che  non  possono  essere
giustificate dal punto di vista della tutela della  concorrenza,  non
possono esserlo neppure dal punto  di  vista  di  altre  clausole  di
competenza legislativa statale, quale il coordinamento finanziario  o
l'ordinamento civile. 
    Al coordinamento finanziario  potrebbe  alludere  l'intitolazione
dell'art. 4, ove si fa riferimento alla Riduzione di spese. Tuttavia,
senza pregiudizio di altre  disposizioni  dell'articolo,  sicuramente
nessuna riduzione di spesa e' possibile ipotizzare  dalla  attuazione
delle disposizioni  impugnate,  non  essendo  affatto  certo  che  il
parcellizzato acquisto sul mercato di tutte le prestazioni svolte  in
regime di coordinata e programmata autoproduzione dalle  societa'  in
house determini alcun risparmio. 
    In  ogni  modo,  l'autonomia  organizzativa  della  Regione   non
potrebbe essere compressa in relazione  ad  una  specifica  modalita'
organizzativa in nome di un generico coordinamento finanziario, oltre
tutto privo di qualunque specifico contenuto economico. 
    Quanto all'ordinamento civile, risulta ad avviso della ricorrente
Regione evidente che, diversamente da altre disposizioni del d.l.  n.
95/2012,  le  norme  qui  impugnate  non   determinano   affatto   un
particolare e specifico regime civilistico di tali  societa',  ma  si
limitano a precludere alla  Regione  l'utilizzazione  di  facolta'  e
liberta'  comuni  a  tutti  i  soggetti,   vincolandone   le   scelte
organizzative. 
    Che non si tratti di norme di diritto civile, ed  in  particolare
di norme sulla capacita' giuridica dell'ente pubblico, risulta  anche
dall'articolazione della disciplina  recata  dall'art.  4.  In  primo
luogo, essa riguarda specifiche societa', e cioe' quelle che nel 2011
si siano trovate in una data condizione: societa' che siano state,  o
saranno, nella medesima condizione in un  diverso  periodo  non  sono
interessate  dalla  disposizione.  E  non  puo'  certo  esservi   una
capacita' giuridica o di  agire  dell'ente  pubblico,  che  appare  o
scompare in funzione dell'anno in cui  la  attivita'  della  societa'
partecipata  ha  una  certa  caratteristica.  In  secondo  luogo,  le
conseguenze del mancato rispetto dell'obbligo di  liquidazione  o  di
cessione della partecipazione non hanno effetti ne'  sulla  esistenza
della societa', ne' sulla validita'  della  partecipazione  dell'ente
pubblico, in  quanto  lo  stesso  art.  4  presuppone  la  perdurante
operativita' della societa': cosi' il comma 2, sul divieto (a partire
dal 2014) di ricevere affidamenti diretti. Come  si  e'  argomentato,
anche  questa  previsione  e'  incostituzionale,  a  giudizio   della
Regione; ma cio'  nonostante,  essa  dimostra  la  estraneita'  della
disciplina impugnata all'ordinamento civile, e quindi alla competenza
esclusiva dello Stato. 
2) Illegittimita' costituzionale dell'art. 9, commi 1, 4, 5 e 6. 
    L'art. 9 e' intitolato Razionalizzazione amministrativa,  divieto
di istituzione e soppressione di enti, agenzie e organismi. 
    Anche  l'impugnazione  dell'art.  9  avviene  in  subordine,  per
l'ipotesi che esso risultasse applicabile alla Regione Friuli-Venezia
Giulia, nonostante  la  clausola  di  salvaguardia  di  cui  all'art.
24-bis. 
    Il comma 1 dispone che, "al fine di assicurare il coordinamento e
il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, il contenimento
della spesa e il migliore svolgimento delle funzioni  amministrative,
le regioni, le province e i comuni sopprimono o accorpano o, in  ogni
caso, assicurano la riduzione dei relativi oneri finanziari in misura
non inferiore al 20 per cento, enti,  agenzie  e  organismi  comunque
denominati e di qualsiasi natura giuridica che, alla data di  entrata
in vigore del presente decreto, esercitano, anche in via strumentale,
funzioni fondamentali di cui all'art. 117, comma secondo, lettera p),
della Costituzione o  funzioni  amministrative  spettanti  a  comuni,
province, e  citta'  metropolitane  ai  sensi  dell'art.  118,  della
Costituzione". Il comma 1-bis precisa peraltro che  "le  disposizioni
di cui al comma 1 non si applicano alle aziende speciali,  agli  enti
ed  alle  istituzioni  che  gestiscono  servizi  socio-assistenziali,
educativi e culturali". 
    Il comma 4 dispone, a sua volta, che "se, decorsi nove mesi dalla
data di entrata in  vigore  del  presente  decreto,  le  regioni,  le
province e i comuni non hanno dato attuazione a quanto  disposto  dal
comma 1, gli enti, le agenzie e gli organismi  indicati  al  medesimo
comma I sono soppressi", e che "sono nulli gli  atti  successivamente
adottati dai medesimi. 
    Il comma 5 dispone che, "ai fini del coordinamento della  finanza
pubblica, le regioni si adeguano  ai  principi  di  cui  al  comma  1
relativamente agli enti, agenzie ed organismi comunque  denominati  e
di qualsiasi natura, che svolgono,  ai  sensi  dell'art.  118,  della
Costituzione,  funzioni  amministrative   conferite   alle   medesime
regioni. 
    Il comma 6, infine, fa "divieto agli  enti  locali  di  istituire
enti, agenzie e organismi comunque denominati e di  qualsiasi  natura
giuridica, che esercitino una o piu' funzioni fondamentali e funzioni
amministrative  loro  conferite  ai  sensi   dell'art.   118,   della
Costituzione". 
    Tutte  le  disposizioni  censurate  hanno  contenuto  prettamente
organizzativo. In  quanto  riguardano  la  Regione  esse  violano  la
competenza primaria regionale di cui all'art. 4, n. 1 dello  statuto,
in materia di ordinamento degli Uffici e degli Enti dipendenti  dalla
Regione (oltre che la competenza residuale in materia riconosciuta  a
tutte le Regioni). Per quanto si riferisce agli enti locali,  risulta
violata sia la  competenza  legislativa  primaria  della  Regione  in
materia di ordinamento degli enti locali (art. 4, n. 1-bis),  sia  la
competenza regionale in materia di finanza locale prevista  dall'art.
54 dello Statuto (secondo il quale "allo scopo di adeguare le finanze
delle Province e dei Comuni  al  raggiungimento  delle  finalita'  ed
all'esercizio delle funzioni  stabilite  dalle  leggi,  il  Consiglio
regionale puo' assegnare ad essi annualmente una quota delle  entrate
della Regione") e dalle norme di attuazione di cui all'art. 9 d. lgs.
9/1997, che ha precisato che "spetta  alla  regione  disciplinare  la
finanza    locale,    l'ordinamento    finanziario    e    contabile,
l'amministrazione del patrimonio e i  contratti  degli  enti  locali"
(co. 1), e che "la regione finanzia  gli  enti  locali  con  oneri  a
carico del proprio bilancio, salvo il disposto di  cui  al  comma  3"
(co. 2). 
    In attuazione di un accordo stipulato tra Regione e  Stato,  poi,
l'art. 1, co. 132, legge 220/2010 ha stabilito che, "per gli esercizi
2011, 2012 e 2013, le regioni a statuto speciale... concordano, entro
il  31  dicembre  di  ciascun  anno  precedente,  con   il   Ministro
dell'economia e delle finanze  il  livello  complessivo  delle  spese
correnti e in conto capitale,  nonche'  dei  relativi  pagamenti,  in
considerazione del rispettivo concorso alla manovra,  determinato  ai
sensi del comma 131". 
    Il comma 134 aggiunge che "le regioni a  statuto  speciale  e  le
province autonome di Trento  e  di  Bolzano  che  esercitano  in  via
esclusiva le funzioni in materia di finanza  locale  provvedono,  per
gli enti locali dei rispettivi territori, alle finalita' correlate al
patto di stabilita' interno, esercitando le  competenze  alle  stesse
attribuite dai rispettivi statuti di autonomia e dalle relative norme
di  attuazione,  definendo  gli  obiettivi   complessivi   di   saldo
finanziario,  con  riferimento  agli  enti  locali  della  regione  o
provincia autonoma, nell'ambito degli accordi di cui ai commi  132  e
133 e nel rispetto dei relativi termini". 
    Il comma 136 dispone che "le regioni  a  statuto  speciale  e  le
province autonome di Trento e di Bolzano concorrono  al  riequilibrio
della finanza pubblica, oltre che nei modi stabiliti dai  commi  132,
133 e 134, anche con misure finalizzate a produrre un  risparmio  per
il bilancio dello  Stato,  mediante  l'assunzione  dell'esercizio  di
funzioni statali, attraverso l'emanazione, con le modalita' stabilite
dai  rispettivi  statuti,   di   specifiche   norme   di   attuazione
statutaria". 
    L'art. 1, co. 154, legge 220/2010 ha statuito poi  quanto  segue:
"la regione autonoma  Friuli-Venezia  Giulia,  gli  enti  locali  del
territorio, i suoi enti e organismi strumentali, le aziende sanitarie
e gli altri enti e organismi il cui funzionamento e' finanziato dalla
regione medesima in via ordinaria e prevalente costituiscono nel loro
complesso il «sistema regionale integrato». Gli obiettivi  sui  saldi
di finanza pubblica complessivamente concordati tra  lo  Stato  e  la
regione sono realizzati attraverso il sistema regionale integrato. La
regione risponde nei confronti dello Stato del mancato rispetto degli
obiettivi di cui al periodo precedente". 
    Infine,  dal  comma  155  risulta  che   "spetta   alla   regione
individuare, con riferimento agli enti locali costituenti il  sistema
regionale integrato, gli obiettivi per ciascun ente  e  le  modalita'
necessarie al raggiungimento degli obiettivi complessivi di volta  in
volta concordati con lo Stato per il periodo di riferimento, compreso
il sistema sanzionatorio". 
    Dunque, la legge n. 220/2010 ha individuato le modalita' con  cui
la Regione Friuli-Venezia Giulia concorre agli obiettivi  di  finanza
pubblica (per cui  sono  illegittimi  i  limiti  relativi  agli  enti
pararegionali) e soprattutto ha stabilito chiaramente  che  lo  Stato
non puo' dettare norme di coordinamento finanziario in relazione agli
enti locali del Friuli-Venezia Giulia (i cui costi, del resto, sono a
carico della Regione). 
    La legge n. 220/2010 si e' basata su un accordo e non puo' essere
unilateralmente derogata dal legislatore statale, pena la  violazione
del principio dell'accordo che domina i rapporti finanziari tra Stato
e Regioni speciali. 
    Risulta infine evidentemente violata anche  la  stessa  autonomia
organizzativa degli  enti  locali,  garantita  dall'art.  114,  comma
secondo,  della  Costituzione,  nonche'  117,  comma  sesto  (secondo
periodo),  in  tema  rispettivamente  di   autonomia   statutaria   e
regolamentare. 
    Le    disposizioni    sopra    riportate    si    rivelano    poi
costituzionalmente illegittime per le seguenti specifiche ragioni. 
    In primo luogo, e' illegittimo il vincolo posto  dal  comma  1  a
regioni, province e  comuni  a  sopprimere  o  accorpare  gli  "enti,
agenzie  e  organismi  comunque  denominati  e  di  qualsiasi  natura
giuridica", o a ridurre almeno del 20% gli oneri finanziari in misura
relativi ad essi. 
    Quanto alla soppressione, si tratta di un  irragionevole  vincolo
alla potesta' di autonomia organizzativa della Regione e  degli  enti
autonomi, smentito del resto dallo stesso legislatore, che lo pone in
alternativa alla predetta riduzione degli oneri finanziari. 
    Ma anche tale vincolo e' illegittimo, in quanto  vincolo  ad  una
specifica voce di spesa,  che  per  giunta  non  rappresenta  ne'  un
aggregato  complessivo  ne'  un  aggregato   significativo,   essendo
evidente che  sia  le  funzioni  che  le  strutture  che  attualmente
esercitano le funzioni debbono venire ricollocate, senza  neppure  la
garanzia di una effettiva riduzione di spesa. 
    Ma anche ove, in denegata ipotesi, tale principio fosse in se'  e
per se' legittimo  come  principio  di  coordinamento  della  finanza
pubblica, sarebbero comunque illegittime le norme dettagliate che  lo
accompagnano (cfr. sentenze Corte  cost.  n.  159/2008  e  297/2009).
Cosi' e' per la norma che direttamente esclude  l'applicazione  della
disposizione "le aziende speciali, agli enti ed alle istituzioni  che
gestiscono  servizi  socio-assistenziali,  educativi  e   culturali",
anziche'  lasciare   tale   individuazione   alle   singole   regioni
interessate, che tra l'altro sono competenti anche per le materie  in
questione. 
    Cosi' e', inoltre, per il comma 4, in base  al  quale,  trascorsi
nove mesi senza che le regioni, le province e i comuni  abbiano  dato
attuazione a quanto disposto dal comma 1, "gli enti, le agenzie e gli
organismi indicati al medesimo comma 1 sono soppressi", e "sono nulli
gli atti successivamente adottati dai medesimi". 
    Si tratta di un intervento brutale  nell'autonomia  organizzativa
della ricorrente Regione (anche in relazione  alla  propria  potesta'
primaria in materia di enti locali e dei propri compiti in materia di
finanza locale) e degli stessi enti locali. 
    E' a ricordare che la sent. 237/2009  ha  dichiarato  illegittima
una "disciplina di dettaglio ed autoapplicativa che non  puo'  essere
ricondotta all'alveo dei  principi  fondamentali  della  materia  del
coordinamento della finanza  pubblica,  in  quanto  non  lascia  alle
Regioni  alcuno  spazio  di  autonoma  scelta  e  dispone,   in   via
principale, direttamente la conseguenza, anche molto incisiva,  della
soppressione delle  comunita'  che  si  trovino  nelle  specifiche  e
puntuali condizioni ivi previste". 
    Si tratta inoltre  di  una  norma  del  tutto  irragionevole:  la
"soppressione" con  norma  generale  di  strutture  non  precisamente
individuate,  e  la  dichiarazione  di  nullita'  di  atti  pure  non
precisamente individuati,  creerebbe  una  situazione  di  incertezza
giuridica che riguarderebbe la sorte del personale,  delle  funzioni,
ed anche la transizione delle competenze a  organi  e  strutture  non
individuati, compromettendone l'esercizio. Sembra dunque evidente  la
violazione del principio di buon  andamento,  protetto  dall'art.  97
Cost. 
    La  Regione  e'   legittimata   ad   invocare   i   principi   di
ragionevolezza e buon andamento, perche'  le  norme  che  li  violano
incidono su materie regionali (v. sentt.  22/2012  e  80/2012),  anzi
condizionano la stessa organizzazione  della  Regione  e  degli  enti
locali della regione. 
    Dopo che il comma 4 ha gia' disposto la soppressione di tutti gli
organismi in questione ove le Regioni (e le province e i comuni)  non
adeguino entro nove mesi la propria organizzazione, il comma 5  detta
una norma specifica per le Regioni, stabilendo  (come  se  null'altro
fosse stato disposto) che "ai fini del  coordinamento  della  finanza
pubblica"  esse  "si  adeguano  ai'  principi  di  cui  al  comma   1
relativamente agli enti, agenzie ed organismi comunque  denominati  e
di qualsiasi natura, che svolgono,  ai  sensi  dell'art.  118,  della
Costituzione,  funzioni  amministrative   conferite   alle   medesime
regioni". 
    A parte l'infondatezza della giustificazione della norma a titolo
di coordinamento della finanza pubblica, essa  dispone  l'adeguamento
ai principi di cui al  comma  1,  in  relazione  agli  organismi  che
svolgono  "ai  sensi  dell'art.  118,  della  Costituzione"  funzioni
"conferite" alle Regioni. 
    A parte la complessiva oscurita' della norma, e' chiaro che  essa
contraddice quella del comma 4, rendendo il complesso  normativo  che
ne risulta ulteriormente incerto, con nuova violazione dei  parametri
gia' esposti a proposito del comma 4. 
    Il comma 6, infine, fa "divieto agli  enti  locali  di  istituire
enti, agenzie e organismi comunque denominati e di  qualsiasi  natura
giuridica, che esercitino una o piu' funzioni fondamentali e funzioni
amministrative  loro  conferite  ai  sensi   dell'art.   118,   della
Costituzione". 
    Poiche' gli enti locali  non  hanno  altre  funzioni  che  quelle
fondamentali e le altre ad essi conferite, la norma si traduce in  un
divieto assoluto per essi di istituire  "enti,  agenzie  e  organismi
comunque denominati e di qualsiasi natura giuridica". 
    Si noti che la norma e' destinata ad applicarsi a tutti gli  enti
locali, eccettuato forse il Comune di Roma per il suo speciale status
di capitale. Nella Regione Friuli, il  divieto  si  applicherebbe  al
comune piu' piccolo come ad Udine e Trieste. Nessuno di essi  sarebbe
giuridicamente in grado di istituire il  minimo  organismo,  comunque
denominato e - beninteso - di "qualsiasi natura giuridica". 
    Una simile disposizione - nella sua estensione  indiscriminata  -
viola   evidentemente   il   principio   di   ragionevolezza   e   di
proporzionalita',  non  essendovi  rapporto  alcuno  con  i  presunti
vantaggi per la finanza pubblica, la cui portata  del  resto  non  e'
neppure enunciata. 
    Viola poi, all'evidenza, la  potesta'  legislativa  regionale  in
materia di ordinamento degli enti locali e di finanza locale, nonche'
l'autonomia stessa degli enti locali interessati, come protetta dagli
articoli 114 e 117 della Costituzione, sopra indicati. 
3) Illegittimita' costituzionale dell'art. 14, comma 16. 
    L'art. 14 e' dedicato alla Riduzione delle spese di personale. 
    Di esso viene qui in questione soltanto il  comma  16,  il  quale
contiene una norma interpretativa - ma in  realta'  limitativa  -  di
precedenti disposizioni, stabilendo che  "ai  fini  dell'applicazione
dei parametri previsti dall'art. 19, comma 5,  del  decreto  legge  6
luglio 2011 n. 98, convertito,  con  modificazioni,  dalla  legge  15
luglio 2011, n. 111, e dall'art. 4, comma 69, della legge 12 novembre
2011, n. 183, per aree  geografiche  caratterizzate  da  specificita'
linguistica si intendono quelle nelle quali siano presenti  minoranze
di lingua madre straniera". 
    Tali parametri  si  riferiscono  al  dimensionamento  della  rete
scolastica, ed il Piano di Dimensionamento Regionale,  approvato  con
deliberazione  giuntale  n.  68  del  23  gennaio  2012  e   adottato
dall'Ufficio Scolastico regionale del FVG con  proprio  provvedimento
prot. n. AOODRFR/764 del 25 gennaio 2012, era stato programmato sulla
base dei parametri originari previsti dall'art. 19,  comma  5,  della
legge n. 111/2011 e dall'art. 4, comma 69, della legge  n.  183/2011,
che prevedevano l'assegnazione del dirigente  scolastico  titolare  e
del direttore dei  servizi  amministrativi  titolare  alle  autonomie
scolastiche costituite da almeno 600  alunni  oppure  da  almeno  400
alunni  in   presenza   di   aree   geografiche   caratterizzate   da
"specificita' linguistica". 
    Prima  dell'intervento  della  norma   qui   contestata,   questa
espressione  si  riferiva  alle   minoranze   linguistiche   storiche
riconosciute. Come e' ben noto, infatti, nel territorio della Regione
Friuli Venezia Giulia esistono tre  minoranze  linguistiche  storiche
riconosciute ai sensi della legge n.  482/1999,  corrispondenti  a  3
diverse specificita' linguistiche: friulana, tedesca e slovena. 
    Conviene infatti ricordare che la lingua friulana e' tutelata  al
pari della germanica e della slovena dalla stessa normativa  statale,
essendo considerato  lingua  minoritaria  dalla  legge  482/1999  che
all'art. 2 dispone appunto  che  "in  attuazione  dell'art.  6  della
Costituzione e in armonia con i  principi  generali  stabiliti  dagli
organismi europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua  e
la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche,  greche,
slovene  e  croate   e   di   quelle   parlanti   il   francese,   il
franco-provenzale, il friulano, il ladino, l'occitano e il sardo". 
    Il parametro dei "400 alunni" veniva dunque applicato  alle  aree
di insediamento delle tre  comunita'  linguistiche,  compresa  quella
friulana. 
    A seguito della nuova disposizione e' venuta meno la possibilita'
di applicare tale parametro alle aree  nelle  quali  la  specificita'
linguistica  non  e'  straniera:  in  pratica  la  nuova  norma,  qui
impugnata, si traduce nella  discriminazione  della  lingua  e  della
comunita' friulana,  rispetto  alla  lingua  e  comunita'  tedesca  e
slovena: in essa, infatti, non sono  presenti  "minoranze  di  lingua
madre straniera". 
    Tale  discriminazione  contraddice  gli  articoli  6  e  3  della
Costituzione, e contraddice anche l'art. 3 dello statuto speciale, in
base al quale "nella Regione e' riconosciuta parita' di diritti e  di
trattamento a tutti i cittadini, qualunque sia il gruppo  linguistico
al  quale  appartengono,  con  la   salvaguardia   delle   rispettive
caratteristiche etniche e culturali". 
    La violazione dello statuto - che fonda anche  la  legittimazione
della Regione alla impugnazione della disposizione discriminatrice  -
e'  evidente,  dato  che  la  norma  non  solo  non  salvaguarda   le
caratteristiche etniche e culturali del gruppo linguistico  friulano,
ma direttamente nega la  parita'  tra  gli  appartenenti  ai  diversi
gruppi, assegnando un trattamento diverso ai diversi gruppi. 
    La  ragione  della  discriminazione,  inoltre,  e'  essa   stessa
irragionevole e contrastante con la Costituzione e con lo statuto. Il
requisito - ai fini della tutela - che  si  tratti  di  minoranze  di
lingua madre straniera  introduce  nella  tutela  delle  specificita'
linguistica un collegamento con i rapporti tra  ordinamenti  statali,
che e' del tutto estraneo alla logica e  alle  ragioni  della  tutela
delle  minoranze  linguistiche,  come  concepita  dall'art.  6  della
Costituzione e dall'art. 3 dello statuto. 
    Di qui la fondatezza della censura. 
4) Illegittimita' costituzionale dell'art. 15, comma 13, lett. c). 
    L'art. 15 detta Disposizioni urgenti per l'equilibrio del settore
sanitario  e  misure  di  governo  della  spesa  farmaceutica.   Tali
disposizioni hanno il "fine di garantire il rispetto  degli  obblighi
comunitari e la realizzazione degli obiettivi  di  finanza  pubblica,
l'efficienza nell'uso delle risorse destinate al settore sanitario  e
l'appropriatezza nell'erogazione delle  prestazioni  sanitarie"  (co.
1). I commi da 2 a 11-bis riguardano la  spesa  farmaceutica,  e  non
vengono qui in considerazione. 
    I commi 12, 13 e 14  contengono  misure  di  razionalizzazione  e
riduzione della spesa per acquisti di  beni  e  servizi  e  ulteriori
misure in campo sanitario. 
    La presente impugnazione riguarda la lett. e) del  comma  13,  la
quale dispone quanto segue: 
        "e) sulla base e nel  rispetto  degli  standard  qualitativi,
strutturali,  tecnologici  e  quantitativi  relativi   all'assistenza
ospedaliera fissati,  entro  il  31  ottobre  2012,  con  regolamento
approvato ai sensi dell'art. 1, comma 169, della  legge  30  dicembre
2004, n.  311,  previa  intesa  della  Conferenza  permanente  per  i
rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento  e
di Bolzano, nonche' tenendo conto della mobilita' interregionale,  le
regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano  adottano,  nel
rispetto della riorganizzazione di servizi distrettuali e delle  cure
primarie finalizzate all'assistenza  24  ore  su  24  sul  territorio
adeguandoli  agli  standard  europei,  entro  il  31  dicembre  2012,
provvedimenti di riduzione dello standard dei posti letto ospedalieri
accreditati  ed  effettivamente  a  carico  del  servizio   sanitario
regionale, ad un livello non superiore a 3,7 posti  letto  per  mille
abitanti, comprensivi di 0,7 posti letto per mille  abitanti  per  la
riabilitazione e la lungodegenza post-acuzie, adeguando coerentemente
le dotazioni organiche dei presidi ospedalieri pubblici ed  assumendo
come riferimento un tasso di ospedalizzazione pari a  160  per  mille
abitanti di cui il 25  per  cento  riferito  a  ricoveri  diurni.  La
riduzione dei  posti  letto  e'  a  carico  dei  presidi  ospedalieri
pubblici per una quota non inferiore al 50 per cento del  totale  dei
posti letto da ridurre ed e' conseguita esclusivamente attraverso  la
soppressione di unita' operative complesse. Nelle singole  regioni  e
province autonome, fino ad avvenuta  realizzazione  del  processo  di
riduzione dei posti letto e  delle  corrispondenti  unita'  operative
complesse, e' sospeso il conferimento o il rinnovo  di  incarichi  ai
sensi dell'art. 15-septies del decreto legislativo 30 dicembre  1992,
n. 502  e  successive  modificazioni.  Nell'ambito  del  processo  di
riduzione, le regioni e le province autonome di Trento e  di  Bolzano
operano una verifica, sotto il profilo  assistenziale  e  gestionale,
della funzionalita' delle piccole  strutture  ospedaliere  pubbliche,
anche  se  funzionalmente  e  amministrativamente  facenti  parte  di
presidi ospedalieri articolati in piu' sedi, e promuovono l'ulteriore
passaggio dal ricovero ordinario al ricovero diurno  e  dal  ricovero
diurno all'assistenza in regime ambulatoriale, favorendo l'assistenza
residenziale e domiciliare". 
    In sintesi, il comma 13, lett. c), 
        - affida ad  un  regolamento  statale  la  definizione  degli
standard  qualitativi,  strutturali,   tecnologici   e   quantitativi
relativi all'assistenza ospedaliera, concepiti -  come  sembra  -come
standard inderogabili sia nel minimo che nel massimo; 
        - prescrive alle Regioni (anche a quelle speciali) di ridurre
lo  standard  dei  posti-letto  ospedalieri,  applicando  i   criteri
dettagliati fissati dalla stessa disposizione (il primo,  il  secondo
ed il terzo  periodo  della  lett.  c)  contengono  regole  puntuali,
comprensive di percentuali, e non certo principi fondamentali); 
        - stabilisce anche che, "fino ad avvenuta  realizzazione  del
processo di riduzione dei posti letto e delle  corrispondenti  unita'
operative complesse, e' sospeso  il  conferimento  o  il  rinnovo  di
incarichi"   a   tempo   determinato,   direttamente    disciplinando
l'attivita' organizzativa e  amministrativa  in  campo  assistenziale
sanitario. 
    Tali  previsioni  e  prescrizioni,  in  quanto   applicate   alla
ricorrente  Regione,  ne  ledono  le  competenze   costituzionali   e
statutarie, e sono costituzionalmente illegittime. 
    Lo Statuto speciale del Friuli Venezia  Giulia  attribuisce  alla
Regione potesta' legislativa concorrente  in  materia  di  "igiene  e
sanita', assistenza sanitaria ed ospedaliera" (art. 5, n. 16),  e  la
corrispondente potesta' amministrativa (art. 8 St.). A tali norme  e'
stata data attuazione con il dPR 869/1966 e con gli artt. 8 e  9  dPR
902/1975. 
    La competenza della Regione in materia di sanita' si e'  ampliata
a seguito della riforma del Titolo V, in quanto ad essa si estende la
competenza di cui all'art. 117, co. 3, Cost.,  che,  secondo  codesta
Corte, e' "assai piu' ampia" di quella prevista dallo Statuto (sentt.
240/2007, 162/2007 e 181/2006). La Corte ha anche osservato  che  "la
sanita', d'altro canto, e' ripartita fra  la  materia  di  competenza
regionale concorrente della "tutela della salute" (terzo  comma),  la
quale deve  essere  intesa  come  «assai  piu'  ampia  rispetto  alla
precedente materia assistenza sanitaria e ospedaliera»  (sentenze  n.
181 del 2006  e  n.  270  del  2005),  e  quella  dell'organizzazione
sanitaria, in cui le Regioni possono adottare «una propria disciplina
anche sostitutiva di quella statale»  (sentenza  n.  510  del  2002)"
(sent. 328/2006, punto 3.1 del Diritto). 
    La speciale autonomia  della  Regione  Friuli-Venezia  Giulia  in
campo sanitario ha ormai da piu' di  15  anni  il  suo  risvolto  nel
meccanismo di finanziamento del servizio sanitario regionale. 
    Infatti, in relazione  all'assetto  statutario  delle  competenze
sopra descritto e quale concorso della Regione Friuli Venezia  Giulia
al riequilibrio della finanza pubblica nazionale, si deve  rammentare
che "a decorrere dal 1997 sono soppresse le quote del Fondo sanitario
nazionale a carico del bilancio dello Stato a  favore  della  regione
Friuli Venezia Giulia che provvede al  finanziamento  dell'assistenza
sanitaria con i proventi dei contributi sanitari e  con  risorse  del
proprio bilancio" (art. 1, comma  144,  legge  662/1996).  Lo  Stato,
dunque, non puo' limitare direttamente una voce di  spesa  delle  Asl
del Friuli Venezia Giulia, dato che il finanziamento di queste  e'  a
carico del bilancio regionale (si veda la sent. 341/09, punto  6:  lo
Stato  non  ha  "ha  titolo  per  dettare  norme   di   coordinamento
finanziario che definiscano le modalita' di contenimento di una spesa
sanitaria che e' interamente sostenuta dalla  Provincia  autonoma  di
Trento"; v. anche sent. 133/2010, punto 3). 
    Del resto, questa specifica disposizione in tema di finanziamento
del servizio sanitario e' parte del piu' ampio sistema dell'autonomia
finanziaria regionale. 
    In attuazione di un accordo stipulato tra Regione e Stato, l'art.
1, co. 154, legge 220/2010 ha statuito quanto segue: 
        "la regione autonoma Friuli Venezia Giulia, gli  enti  locali
del territorio, i suoi  enti  e  organismi  strumentali,  le  aziende
sanitarie e gli altri  enti  e  organismi  il  cui  funzionamento  e'
finanziato dalla regione  medesima  in  via  ordinaria  e  prevalente
costituiscono nel loro complesso il  «sistema  regionale  integrato».
Gli  obiettivi  sui  saldi  di  finanza   pubblica   complessivamente
concordati tra lo Stato e la regione sono  realizzati  attraverso  il
sistema regionale integrato. La regione risponde nei confronti  dello
Stato  del  mancato  rispetto  degli  obiettivi  di  cui  al  periodo
precedente". 
    Il  comma  155  ha  poi  aggiunto  che   "spetta   alla   regione
individuare, con riferimento agli enti locali costituenti il  sistema
regionale integrato, gli obiettivi per ciascun ente  e  le  modalita'
necessarie al raggiungimento degli obiettivi complessivi di volta  in
volta concordati con lo Stato per il periodo di riferimento, compreso
il sistema sanzionatorio", e che "le disposizioni statali relative al
patto di stabilita' interno non trovano applicazione con  riferimento
agli enti locali costituenti il sistema regionale integrato". 
    Da tali norme risulta che lo  Stato  -  nel  quadro  dei  vincoli
finanziari che esso concorda con la Regione (v. l'art.  1,  co.  132,
legge n. 220/2010) - deve lasciare a questa il compito di regolare  i
rispettivi obblighi finanziari propri e dei propri enti strumentali. 
    Ancor meno lo Stato puo' pretendere che la Regione Friuli-Venezia
Giulia sia vincolata da prescrizioni dettagliate,  quali  quelle  del
comma 13, lett. c), primo, secondo e terzo periodo. 
    Ne' varrebbe replicare  che  anche  le  Regioni  speciali  devono
concorrere al risanamento della finanza pubblica. Infatti,  lo  Stato
ha gia' definito (con l'art. 1, commi 152 ss. legge 220/2010) i  modi
in cui la Regione Friuli Venezia Giulia concorre al risanamento della
finanza pubblica, con norme che hanno recepito l'Accordo di Roma  del
29 ottobre 2010. I  commi  154  e  155  dell'art.  1  legge  220/2010
attribuiscono alla Regione poteri di  coordinamento  finanziario  con
riferimento agli enti dell'ordinamento regionale. 
    Puo' essere  anche  utile  ricordare  che  codesta  stessa  Corte
costituzionale ha pronunciato sentenze recentissime  nelle  quali  ha
stabilito che altre Regioni ad autonomia speciale non  sono  soggette
ai vincoli finanziari posti da atti legislativi statali,  sulla  base
di norme ed argomenti che ben si adattano anche alla situazione della
Regione Friuli-Venezia Giulia. 
    Cosi' le sentenze 215/2012, 151/2012 e 173/2012, hanno  stabilito
che i vincoli di cui al d.l. 78/2010 non si  applicano  alla  Regione
Valle d'Aosta dopo la gia'  citata  legge  220/2010,  dato  che  essa
concorre all'assolvimento degli obblighi finanziari nei modi previsti
dalla stessa legge 220/2010. Nella decisione ha  assunto  particolare
rilievo l'art. 1, co. 132,  legge  220/2010  (secondo  cui  "per  gli
esercizi 2011, 2012 e 2013, le regioni a statuto speciale, escluse la
regione Trentino-Alto Adige e le province autonome  di  Trento  e  di
Bolzano, concordano, entro il 31 dicembre di ciascun anno precedente,
con il Ministro dell'economia e delle finanze il livello  complessivo
delle spese correnti  e  in  conto  capitale,  nonche'  dei  relativi
pagamenti, in considerazione del rispettivo  concorso  alla  manovra,
determinato ai sensi del comma 131"),  che  vale  sia  per  la  Valle
d'Aosta sia per il Friuli-Venezia Giulia. 
    Ed il comma 136, poi, dispone che "le regioni a statuto  speciale
e  le  province  autonome  di  Trento  e  di  Bolzano  concorrono  al
riequilibrio della finanza pubblica, oltre che nei modi stabiliti dai
commi 132, 133 e 134, anche con  misure  finalizzate  a  produrre  un
risparmio  per  il  bilancio  dello  Stato,   mediante   l'assunzione
dell'esercizio di funzioni statali, attraverso l'emanazione,  con  le
modalita' stabilite dai rispettivi statuti, di  specifiche  norme  di
attuazione statutaria". 
    Commisurate al complesso di disposizioni ora  esposte,  volte  ad
assicurare  in  termini  del  tutto   peculiari   l'autonomia   della
ricorrente  Regione  nella  disciplina  dell'organizzazione  e  della
gestione  del  servizio  sanitario,  le  disposizioni  impugnate   si
rivelano  con   esse   contrastanti   e   dunque   costituzionalmente
illegittime, sotto vari e distinti profili. 
    In primo luogo, illegittimo e'  il  vincolo  al  "rispetto  degli
standard  qualitativi,  strutturali,   tecnologici   e   quantitativi
relativi all'assistenza ospedaliera" fissati con regolamento statale,
ove con tale espressione si intenda non - come nella  tradizione  dei
livelli essenziali, ai quali pure la norma si  richiama  mediante  il
riferimento all'art. 1, comma 169, della legge n. 311 del 2004  -  il
rispetto dei minimi fissati da tali standard,  ma  l'obbligo  di  non
oltrepassarli. 
    Ove la disposizione dovesse  essere  intesa  come  fissazione  di
standard inderogabili anche nel massimo,  la  sua  applicazione  alla
ricorrente Regione non avrebbe fondamento alcuno,  e  sarebbe  dunque
costituzionalmente illegittima. 
    Sarebbe  violata,  in  primo   luogo,   l'autonomia   finanziaria
regionale. Da un lato, si tratta della specifica autonomia in materia
di finanziamento della  sanita'.  Poiche',  come  sopra  esposto,  la
Regione Friuli-Venezia Giulia provvede al finanziamento del  Servizio
sanitario nei rispettivi territori, senza alcun apporto a carico  del
bilancio dello Stato, ne deriva che "lo Stato, quando non concorre al
finanziamento della spesa sanitaria, neppure ha  titolo  per  dettare
norme di coordinamento finanziario" (sentenze n. 341 del  2009  e  n.
133 del 2010). 
    D'altro  lato,  tale  limitazione  sarebbe  incongrua  anche   se
commisurata alla  generale  autonomia  finanziaria  regionale,  quale
definita  dalle  disposizioni  sopra  illustrate  e   dal   principio
dell'accordo, che domina il regime dei rapporti finanziari tra  Stato
e autonomie speciali (Corte costituzionale, sentenze n. 82 del  2007,
n. 353 del 2004, n. 39 del 1984, n. 98 del 2000 e n. 133  del  2010):
da tali norme e principi risulta che lo Stato deve concordare con  la
Regione gli obiettivi relativi ai saldi di  finanza  pubblica  e  non
puo' unilateralmente fissare standard massimi relativi all'assistenza
ospedaliera.  In  definitiva,  e'  illegittima  l'assimilazione  alle
Regioni ordinarie della Regione Friuli-Venezia  Giulia,  che  finanza
con proprie risorse il SSN ed e' dotata di uno  speciale  regime  per
quel che riguarda il concorso agli  obiettivi  di  finanza  pubblica,
regime che  prevede  espressamente,  tra  l'altro,  il  potere  della
Regione  di  raggiungere  gli  obiettivi  concordati  con  lo   Stato
"attraverso il sistema regionale integrato" (art. 1, co.  154,  legge
220/2010), cioe' anche attraverso le Asl. 
    Sarebbe poi violato l'art. 117, co. 2, lett. m)  Cost.,  che  da'
allo  Stato  il  potere  di  definire  i  "livelli  essenziali  delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali", e non di fissare
standard massimi dell'assistenza ospedaliera. 
    Ugualmente illegittime, commisurate  ai  predetti  parametri,  si
rivelano le disposizioni secondo le quali la  Regione  Friuli-Venezia
Giulia dovrebbe adottare "provvedimenti di riduzione  dello  standard
dei posti letto ospedalieri accreditati ed  effettivamente  a  carico
del servizio sanitario regionale, ad un livello non superiore  a  3,7
posti letto per mille abitanti, comprensivi di 0,7  posti  letto  per
mille abitanti per la riabilitazione e la  lungodegenza  post-acuzie,
adeguando  coerentemente   le   dotazioni   organiche   dei   presidi
ospedalieri pubblici  ed  assumendo  come  riferimento  un  tasso  di
ospedalizzazione pari a 160 per mille abitanti di cui il 25 per cento
riferito a ricoveri diurni", ponendo la riduzione dei posti letto  "a
carico dei presidi ospedalieri pubblici per una quota  non  inferiore
al  50  per  cento  del  totale  dei  posti  letto  da   ridurre"   e
conseguendola "esclusivamente attraverso la  soppressione  di  unita'
operative complesse". 
    A  tale  vincolo  si  oppongono  intanto,   qualificandolo   come
illegittimo, le stesse considerazioni sopra esposte circa l'autonomia
finanziaria regionale, sia quella specifica in  campo  sanitario  che
quella generale. 
    A tali profili di illegittimita' - che tra l'altro escludono  che
i  vincoli  cosi'  posti  si  possano  giustificare   a   titolo   di
coordinamento finanziario - si aggiunge quello relativo al  carattere
palesemente dettagliato dei vincoli in  questione.  Mentre  nulla  vi
sarebbe da eccepire se essi fossero stabiliti come livelli minimi, ne
sembra  invece  evidente  l'illegittimita'  in  quanto   essi   siano
concepiti  come  la  definizione  dal  centro  delle  caratteristiche
organizzative ed operative del  servizio.  Si  noti  che  la  materia
attiene qui all'organizzazione sanitaria, materia che la Costituzione
affida  alle  Regioni.  Le   prescrizioni   appena   riferite   hanno
palesemente carattere puntuale, non  temporaneo  e  non  lasciano  un
margine d'azione alle Regioni, che devono solo eseguirle. Si  tratta,
dunque, di norme che non hanno le caratteristiche necessarie, secondo
la giurisprudenza costituzionale, per assurgere al rango di  principi
fondamentali di coordinamento della finanza pubblica. 
    Nella sostanza, si verrebbero  in  questo  modo  a  vincolare  le
scelte regionali circa l'organizzazione del servizio sanitario, senza
fondamento ne' finanziario ne' di principio. Di qui la  constatazione
della illegittimita'. 
    Ancora, e' costituzionalmente illegittima la disposizione di  cui
al terzo periodo del  comma  13,  secondo  la  quale  "nelle  singole
regioni e province  autonome,  fino  ad  avvenuta  realizzazione  del
processo di riduzione dei posti letto e delle  corrispondenti  unita'
operative complesse, e' sospeso  il  conferimento  o  il  rinnovo  di
incarichi ai sensi dell'art. 15-septies del  decreto  legislativo  30
dicembre 1992, n. 502". 
    Tale disposizione e' illegittima in  primo  luogo  in  quanto  si
connette   strumentalmente    alle    disposizioni    precedentemente
contestate, rendendo ancora piu' evidente che la loro natura  non  e'
quella di livelli minimi da rispettare, ma quella di' livelli massimi
da non superare. 
    Ma essa e' illegittima anche in quanto, per "sanzionare" le norme
precedenti, reca a sua volta un limite puntuale (e  non  suscettibile
di svolgimento da parte  regionale)  alla  spesa  sanitaria,  ledendo
l'autonomia legislativa regionale in materia sanitaria e  l'autonomia
finanziaria regionale, come sopra descritte. 
5) Illegittimita' costituzionale dell'art. 15, comma 22, dal  secondo
al quinto periodo. 
    Il comma 22, primo periodo,  dell'art.  15  stabilisce  che,  "in
funzione delle disposizioni recate dal presente articolo  il  livello
del fabbisogno del  servizio  sanitario  nazionale  e  del  correlato
finanziamento, previsto dalla vigente legislazione, e' ridotto di 900
milioni di euro per l'anno 2012, di 1.800 milioni di euro per  l'anno
2013 e di 2.000 milioni di euro per l'anno 2014 e  2.100  milioni  di
euro a decorrere dall'anno 2015".  Cosi'  definite  le  riduzioni  di
fabbisogno, il secondo periodo precisa che esse "sono  ripartite  fra
le regioni e le province autonome di  Trento  e  di  Bolzano  secondo
criteri e modalita'  proposti  in  sede  di  autocoordinamento  dalle
regioni e province autonome di  Trento  e  di  Bolzano  medesime,  da
recepire, in sede di espressione dell'Intesa sancita dalla Conferenza
permanente per i rapporti fra lo Stato,  le  regioni  e  le  province
autonome di Trento e  Bolzano  per  la  ripartizione  del  fabbisogno
sanitario e delle disponibilita' finanziarie annue  per  il  Servizio
sanitario nazionale, entro il  30  settembre  2012,  con  riferimento
all'anno 2012 ed entro il 30 novembre 2012 con riferimento agli  anni
2013 e seguenti". 
    Il terzo periodo  considera  l'ipotesi  che  "non  intervenga  la
predetta proposta entro  i  termini  predetti",  e  per  questo  caso
dispone che "all'attribuzione del concorso alla manovra di correzione
dei conti alle singole regioni e alle Province autonome di  Trento  e
di Bolzano, alla ripartizione  del  fabbisogno  e  alla  ripartizione
delle disponibilita' finanziarie  annue  per  il  Servizio  sanitario
nazionale si provvede secondo  i  criteri  previsti  dalla  normativa
vigente". 
    Lo stesso comma  22  contiene  due  ulteriori  disposizioni,  che
riguardano specificamente le Regioni speciali. 
    In base al quarto periodo del comma 22,  "le  Regioni  a  statuto
speciale e le Province autonome di Trento e  Bolzano,  ad  esclusione
della regione Siciliana, assicurano il concorso di  cui  al  presente
comma mediante le procedure  previste  dall'art.  27  della  legge  5
maggio 2009, n. 42"; e tuttavia, in base  al  quinto  periodo,  "fino
all'emanazione delle norme di attuazione di cui al predetto art.  27,
l'importo del concorso alla manovra  di  cui  al  presente  comma  e'
annualmente accantonato, a valere sulle quote di compartecipazione ai
tributi erariali. 
    Dunque,   nella   disciplina   cosi   stabilita   le   norme   di
razionalizzazione della spesa contenute nell'art. 15 costituiscono la
premessa  di  un  minor  fabbisogno  e  di   un   minore   "correlato
finanziamento", cioe' di una minore dimensione  del  Fondo  sanitario
nazionale: che poi si traduce, ovviamente, in un minor  trasferimento
di risorse dallo Stato alle Regioni che partecipano di tale fondo. 
    Sin qui il meccanismo e' logico. 
    Non si puo' dire ugualmente della applicazione delle disposizioni
sopra descritte alle autonomie speciali nelle quali la sanita'  e'  a
carico della Regione stessa:  come  accade  appunto  per  la  Regione
Friuli-Venezia Giulia. 
    In esse non esiste un  separato  finanziamento  per  il  servizio
sanitario, che e' invece finanziato  con  il  bilancio  generale.  La
Regione, che finanzia  in  proprio  il  servizio,  rivendica  -  come
esposto ai punti precedenti - di non  essere  soggetta  alle  forzose
riduzioni dei livelli delle prestazioni sopra descritti. Ma ove  tali
riduzioni si verificassero - e con esse un minore livello di spesa  -
si tratterebbe  pur  sempre  di  una  minore  incidenza  della  spesa
sanitaria sull'autonomo  bilancio  complessivo  della  Regione,  come
definito dalle entrate che lo Statuto attribuisce  ad  essa  e  dalle
spese necessarie o opportune. 
    Nel meccanismo ideato dalle  norme  qui  contestate,  invece,  la
violazione  dell'autonomia  della  Regione  nella  organizzazione   e
gestione del servizio sanitario, con la forzosa  riduzione  dei  suoi
livelli, si traduce addirittura  in  una  forzosa  acquisizione  allo
Stato delle risorse che  lo  statuto  di  autonomia  garantisce  alla
Regione Friuli-Venezia Giulia. Tale,  e  non  altro,  e'  infatti  il
significato del passaggio di risorse da tali autonomie speciali  allo
Stato. La lesione si raddoppia: alla violazione dell'autonomia  nelle
funzioni si somma l'illegittima sottrazione  di  risorse.  E'  dunque
costituzionalmente illegittimo - per diretta violazione dell'art.  49
dello statuto e del principio di leale collaborazione - il  principio
stesso di tale acquisizione. Infatti l'art. 49 St.  attribuisce  alla
Regione quote del gettito di  determinate  entrate  tributarie  dello
Stato, percepite nel rispettivo territorio, affinche' queste  vengano
spese nell'esercizio delle funzioni e competenze costituzionali della
Regione stessa, e non affinche' lo Stato  ne  possa  disporre  a  suo
piacimento. In pratica, il  comma  22  determina  unilateralmente  un
contributo straordinario  permanente,  a  carico  della  Regione,  al
risanamento della finanza pubblica statale. 
    E' opportuno ricordare che la sent. 133/2010  ha  annullato,  per
violazione del principio di leale collaborazione, l'art. 22,  co.  3,
d.l. 78/2009, nella parte in cui si applicava alla  Valle  d'Aosta  e
alle Province autonome, in quanto "l'art. 22, commi 2 e 3,  incide...
in  modo  unilaterale  sull'autonomia  finanziaria  di  entrambe   le
ricorrenti, imponendo loro di riversare nel bilancio dello  Stato  le
somme  ricavate  dalle  economie   sulla   spesa   farmaceutica.   La
specialita'  dell'autonomia  finanziaria  delle   stesse   ricorrenti
sarebbe vanificata se fosse possibile variare l'assetto dei  rapporti
finanziari con lo Stato con una semplice legge ordinaria, in  assenza
di un accordo bilaterale che la preceda". 
    In effetti,  le  norme  del  comma  22  alterano  unilateralmente
l'assetto dei rapporti finanziari tra Stato e Regione  Friuli-Venezia
Giulia, violando il principio dell'accordo che domina  tali  rapporti
(anche su cio' v. sopra) e l'art. 63, commi 1 e 5, dello Statuto, che
regolano la procedura di revisione dello  Statuto  e  la  particolare
procedura di modifica delle norme finanziarie di esso. 
    Inoltre, lo Stato ha gia' definito (con la legge 220/2010) i modi
in cui la Regione Friuli-Venezia Giulia concorre al risanamento della
finanza pubblica, con norme che hanno recepito l'Accordo di Roma  del
29 ottobre 2010: si rinvia, su cio', al punto precedente. 
    Alla  illegittimita'  del  principio  stesso  che  informa   tale
sottrazione di risorse si uniscono  poi  le  ulteriori  e  specifiche
illegittimita' dei meccanismi applicativi di tale principio. 
    Il quantum del "concorso alla manovra di correzione dei conti" e'
definito nei modi previsti dal secondo e terzo periodo; quest'ultimo,
in particolare,  fa  riferimento  a  non  meglio  precisati  "criteri
previsti dalla normativa vigente", che forse non esistono in assoluto
ma sicuramente non possono  esistere  in  relazione  alle  Regioni  e
Province autonome che non partecipano del Fondo sanitario. 
    Il  terzo  periodo  del  comma  22   e'   dunque   specificamente
illegittimo per  violazione  dei  principi  di  ragionevolezza  e  di
certezza. Infatti, esso contiene  un  rinvio  (ai  "criteri  previsti
dalla  normativa  vigente")  assolutamente  indeterminato,  tale   da
determinare incertezza sul  quantum  del  concorso  alla  manovra  di
risanamento.  Inoltre,  il  rinvio  alla  normativa  vigente   appare
irragionevole con riferimento alle autonomie  speciali  che  assumono
l'onere del servizio sanitario a carico dei propri bilanci. 
    La Regione Friuli-Venezia Giulia e' legittimata a far valere tali
vizi, posto che la norma in questione attiene al coordinamento  della
finanza  pubblica  (materia  di  competenza   anche   regionale)   e,
determinando incertezza sulle risorse a disposizione per il  Servizio
sanitario  regionale,  pregiudica   lo   svolgimento   dell'autonomia
legislativa ed amministrativa della Regione. 
    Il quomodo del concorso e' definito nei modi previsti dal  quarto
e quinto periodo: il quarto periodo effettua un rinvio alle norme  di
attuazione  dello  statuto,  mentre  il  quinto  prevede  che,   fino
all'emanazione di esse, lo Stato trattenga ogni anno, sulle quote  di
compartecipazione  ai  tributi  erariali  previste   dallo   Statuto,
l'importo del  concorso  della  Regione  Friuli-Venezia  Giulia  alla
riduzione della spesa sanitaria. 
    Ora, il rinvio alle  norme  di  attuazione  (quarto  periodo)  e'
comunque illegittimo, in  quanto  la  norma  in  questione  determina
(illegittimamente)  un  vincolo  di  contenuto  per   le   norme   di
attuazione, per cui il rinvio alla fonte "concertata" appare fittizio
e contrasta con l'art. 65 St. 
    Infine,  la  previsione   dell'accantonamento   di   un   importo
imprecisato su tali quote autonomamente viola l'art. 49 St., dato che
le  somme  da  esso  garantite  alla  Regione  vengono  indebitamente
ridotte. 
    Sono  dunque  lesivi  e  costituzionalmente  illegittimi  sia  il
principio stesso del trasferimento di risorse regionali  allo  Stato,
sia le modalita' applicative, nei termini sopra esposti. 
6) Illegittimita' costituzionale dell'art. 16, comma 3. 
    L'art. 16, co. 1, dispone che, "ai fini della tutela  dell'unita'
economica della Repubblica, gli enti territoriali  concorrono,  anche
mediante  riduzione  delle  spese   per   consumi   intermedi,   alla
realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica nel rispetto  delle
disposizioni di cui al presente articolo, che costituiscono  principi
fondamentali di coordinamento della finanza pubblica". 
    Il comma 3 statuisce che, "con le procedure previste dall'art. 27
della legge 5 maggio 2009, n. 42, le Regioni a statuto speciale e  le
Province autonome di Trento e Bolzano  assicurano  un  concorso  alla
finanza pubblica per l'importo complessivo di 600 milioni di euro per
l'anno 2012, 1.200 milioni di euro per l'anno 2013 e 1,500 milioni di
euro per l'anno 2014 e 1.575 milioni di euro  a  decorrere  dall'anno
2015". 
    La disposizione aggiunge che, "fino all'emanazione delle norme di
attuazione di  cui  al  predetto  art.  27,  l'importo  del  concorso
complessivo di cui al primo periodo del presente comma e' annualmente
accantonato, a valere sulle quote  di  compartecipazione  ai  tributi
erariali, sulla base di apposito  accordo  sancito  tra  le  medesime
autonomie speciali in sede di Conferenza permanente  per  i  rapporti
tra lo Stato, le regioni e  le  province  autonome  di  Trento  e  di
Bolzano e recepito con decreto del Ministero  dell'economia  e  delle
finanze entro il 30 settembre 2012". 
    E'  ancora   previsto   che   in   caso   di   mancato   accordo,
"l'accantonamento  e'   effettuato,   con   decreto   del   Ministero
dell'economia e delle finanze da emanare entro il 15 ottobre 2012, in
proporzione alle spese sostenute per consumi intermedi  desunte,  per
l'anno 2011, dal SIOPE", e che fino  all'emanazione  delle  norme  di
attuazione, "gli obiettivi del  patto  di  stabilita'  interno  delle
predette autonomie speciali sono rideterminati  tenendo  conto  degli
importi derivanti dalle predette procedure". 
    Siamo, dunque, di fronte ad una ulteriore  rilevante  sottrazione
di risorse alle Regioni speciali, che si aggiunge a  quelle  previste
dall'art. 14  d.l.  78/2010,  dall'art.  20,  co.  5,  d.l.  98/2011,
dall'art. 1, co. 8, d.l. 138/2011 (come sintetizzati e ripartiti  dal
comma 10 dell'art. 32 della legge n. 183 del 2011)  e  dall'art.  28,
co. 3, d.l. 201/2011. Come le precedenti, essa e'  disposta  su  base
meramente potestativa, come se le norme statutarie che definiscono la
finanza  della  Regione  Friuli-Venezia  Giulia  non  avessero  alcun
valore, o fossero liberamente disponibili da  parte  del  legislatore
statale. 
    Infatti, la sottrazione di risorse qui contestata non  ha  alcuna
base statutaria. Al  contrario,  le  disposizioni  dello  Statuto,  a
partire dal fondamentale art. 49, sono  rivolte  ad  assicurare  alla
Regione le finanze necessarie all'esercizio  delle  funzioni:  ed  e'
chiaro che la devoluzione statutaria di  importanti  percentuali  dei
tributi riscossi nella regione non avrebbe alcun senso, se poi  fosse
consentito alla legge ordinaria dello Stato di  riportare  all'erario
tali risorse, per di piu' con determinazione unilaterale e  meramente
potestativa. La ricorrente Regione ha potuto far valere con  successo
la garanzia di  cui  all'art.  49,  ad  esempio,  nella  controversia
definita con la sent. 74/2009. 
    Inoltre, lo Stato ha gia' definito (con la legge 220/2010) i modi
in cui la Regione Friuli-Venezia Giulia concorre al risanamento della
finanza pubblica, con norme che hanno recepito l'Accordo di Roma  del
29 ottobre 2010: si rinvia, su cio', al punto relativo  all'art.  15,
co. 13. 
    Del resto, tutto il regime dei rapporti finanziari  fra  Stato  e
Regioni speciali e' dominato dal principio  dell'accordo,  pienamente
riconosciuto  nella  giurisprudenza  costituzionale:  v.  le   sentt.
82/2007, 353/2004, 39/1984, 98/2000, 133/2010. L'"obbligo generale di
partecipazione di tutte le Regioni, ivi  comprese  quelle  a  statuto
speciale,  all'azione  di  risanamento  della  finanza  pubblica"   -
puntualizza la Corte con la sent. 82/2007 - "deve essere contemperato
e coordinato con la speciale autonomia in materia finanziaria di  cui
godono le predette Regioni,  in  forza  dei  loro  statuti.  In  tale
prospettiva, come questa Corte ha avuto occasione  di  affermare,  la
previsione normativa del metodo dell'accordo tra le Regioni a statuto
speciale e  il  Ministero  dell'economia  e  delle  finanze,  per  la
determinazione delle spese correnti e in conto capitale, nonche'  dei
relativi pagamenti, deve considerarsi un'espressione della  descritta
autonomia finanziaria e del contemperamento  di  tale  principio  con
quello del rispetto dei limiti  alla  spesa  imposti  dal  cosiddetto
"patto di stabilita'" (sentenza n. 353 del 2004)". 
    Questo principio, sul  piano  della  legislazione  ordinaria,  ha
trovato fino ad ora varie concretizzazioni. E' sufficiente richiamare
qui, per la sua portata sistematica, l'art.  27  legge  42/2009,  che
rimette  alle  norme  di  attuazione  statutaria  la  attuazione  dei
principi del c.d. federalismo fiscale (tra i quali vi e' il  rispetto
del patto di stabilita' e dei vincoli  finanziari  europei),  tenendo
"conto della dimensione della finanza delle [...] regioni e  province
autonome rispetto alla finanza pubblica complessiva,  delle  funzioni
da esse effettivamente esercitate e dei relativi oneri...". Le stesse
misure particolari dei ricordati commi 152 e 156  dell'art.  1  legge
220/2010,  specificamente   concernenti   l'apporto   della   Regione
Friuli-Venezia Giulia al risanamento delle  finanze  pubbliche,  sono
state oggetto di confronto e discussione tra Governo e Regione. 
    Con il principio costituzionale di collaborazione si  pongono  in
contrasto  le  disposizioni  impugnate.  L'art.  16,  co.  3,  deroga
unilateralmente  all'Accordo  di   Roma   del   2010,   fra   l'altro
penalizzando irragionevolmente quelle Regioni speciali che nel 2009 e
nel 2010 avevano gia' concordato il loro  contributo  al  risanamento
finanziario, privandosi di notevoli risorse, rispetto  a  quelle  che
non hanno mai assunto simili impegni. 
    Le  risorse   spettanti   alla   Regione   non   possono   essere
semplicemente "acquisite"  dallo  Stato,  mentre  la  Regione  stessa
concorre al risanamento della finanza pubblica nei modi  direttamente
previsti dalla legge 220/2010. Si tratta di un regime  speciale,  che
non puo' essere alterato unilateralmente dal legislatore ordinario. 
    Di fronte a tale violazioni  dei  parametri  costituzionali,  non
varrebbe certo  obiettare  che  tutte  le  autonomie  territoriali  -
Regioni  speciali  comprese  -   sono   soggette   ai   principi   di
coordinamento  della  finanza  pubblica,  inevitabilmente  fissati  a
livello nazionale, anche in adempimento di  obblighi  europei  (sent.
82/2007); che la attribuzione di quote fisse di tributi erariali puo'
condurre ad un incremento delle risorse  regionali,  in  funzione  di
manovre tributarie statali, senza che vi  sia  necessita'  -da  parte
della Regione - di  nuove  risorse  per  nuove  funzioni,  o  per  un
migliore assolvimento di compiti precedenti (ma le entrate potrebbero
anche diminuire, per l'andamento negativo  del  ciclo  economico...);
che lo stesso art. 49 Statuto, nel  momento  in  cui  riconosce  alla
Regione autonomia finanziaria, aggiunge subito che essa si svolge (si
deve  svolgere)  "in  armonia  con  i  principi  della   solidarieta'
nazionale". 
    Infatti, la  considerazione  di  tali  valori  deve  essa  stessa
manifestarsi  mediante   strumenti   costituzionalmente   ammissibili
nell'ordinamento. 
    Cosi', anzitutto, le stesse  norme  di  attuazione  statutaria  -
radicate direttamente nel principio di solidarieta' nazionale  (sent.
75/1967) - consentono di eccettuare dalla attribuzione  alla  Regione
le nuove entrate tributarie statali il cui gettito sia destinato  con
apposite  leggi  alla  copertura  di  oneri  diretti   a   soddisfare
particolari  finalita'  contingenti  o  continuative   dello   Stato,
specificate nelle leggi medesime, a termini  dell'art.  4  d.p.r.  23
gennaio 1965, n. 114. Ma la legittimita' costituzionale della riserva
e' subordinata alla corretta destinazione di  tali  risorse  in  base
alla citata disposizione: il che nel caso presente non avviene. 
    Inoltre,  le  stesse  disposizioni  statutarie  sulla   autonomia
finanziaria (art. 49 compreso) possono sempre essere modificate (come
varie volte e' gia' accaduto)  senza  ricorrere  alla  revisione  con
legge costituzionale, purche' vi sia il coinvolgimento della  Regione
(art. 63, comma 5, Statuto). 
    Non puo' ingannare, in questo come negli altri  casi,  il  rinvio
alle  norme  di   attuazione   dello   Statuto.   In   primo   luogo,
l'accantonamento previsto in attesa delle norme di attuazione e' gia'
autonomamente lesivo, traducendosi in diretta violazione dell'art. 49
St. e in una sottrazione delle risorse disponibili per la Regione. La
riduzione delle risorse e' operata direttamente e unilateralmente dal
legislatore statale, in contrasto con lo Statuto e con  il  principio
consensuale che domina i rapporti tra Stato  e  Regioni  speciali  in
materia finanziaria (v. le sentt. sopra citate). 
    In secondo luogo, quanto alle stesse norme di attuazione,  l'art.
49 e' modificabile solo con la procedura di cui all'art. 63 St. e non
in  sede  di  attuazione.  Inoltre,  l'art.  16,  co.  3,   determina
(illegittimamente)  un  vincolo  di  contenuto  per   le   norme   di
attuazione,  per  cui  il  rinvio  alla  fonte  "concertata"   appare
fittizio. 
    In definitiva, come detto, l'art. 16, co. 3, viola l'art. 63, co.
5, St. (che richiede il coinvolgimento della Regione per la  modifica
delle norme del Titolo IV dello Statuto) e l'art. 65 St., perche' una
fonte primaria pretende di vincolare  il  contenuto  delle  norme  di
attuazione. 
    Ancora, l'art. 16, co. 3, viola l'art. 49 St., perche' diminuisce
l'importo spettante alla Regione a titolo  di  compartecipazioni,  in
base alla suddetta norma  statutaria  Infine,  per  le  ragioni  gia'
viste, e' violato il principio di leale collaborazione. 
    E' vero che la sent. 193/2012 ha fatto salvi l'art. 20, co.  4  e
5, d.l. 98/2011  e  l'art.  1,  co.  8,  d.l.  138/2011  (dichiarando
illegittimo solo  il  carattere  non  temporaneo  dei  tagli)  ma  e'
arrivata  a  tale  conclusione  semplicemente  richiamando  la  sent.
148/2012  (che  aveva  respinto  la  questione  di  costituzionalita'
dell'art. 14, commi 1 e 2, d.l.  78/2010  sollevata  da  una  Regione
ordinaria), senza - dunque - esaminare la peculiare situazione, sopra
descritta, della Regione Friuli-Venezia Giulia. Inoltre,  l'art.  16,
comma 3,  si  traduce  in  concreto  sia  in  una  diminuzione  della
capacita' di spesa della Regione (come chiarisce del resto il comma 4
dello stesso articolo)  che  in  una  correlativa  diminuzione  delle
entrate statutarie ad essa spettanti. Diversamente  e'  accaduto  per
l'art. 14 d.l. 78/2010 e per l'art. 20 d.l. 98/2011 e l'art.  1  d.l.
138/2011, che hanno determinato unicamente limiti alla  capacita'  di
spesa regionale, ferma restando ogni prerogativa d'entrata. 
    E', poi, ulteriormente  e  specificamente  illegittimo  e  lesivo
l'art.  16,  co.  3,  la'  dove  prevede  il  criterio  del   riparto
dell'accantonamento ("in proporzione alle spese sostenute per consumi
intermedi desunte,  per  l'anno  2011,  dal  SIOPE").  Infatti,  tale
criterio non risulta in alcun  modo  pariteticamente  concordato  tra
Stato e Regioni speciali, in contrasto con il  principio  consensuale
di cui sopra, oggi stabilito  espressamente  nell'art.  1,  co.  132,
legge 220/2010 per la  determinazione  del  patto  di  stabilita'  (e
comunque sempre seguito  nelle  precedenti  leggi  finanziarie  dello
Stato). 
    Da ultimo, e ferme restando le censure fino ad  ora  esposte,  la
disposizione di cui al comma 3 e' autonomamente altresi'  illegittima
nella parte in cui dispone un concorso  che  "a  decorrere  dall'anno
2015" si protrae a tempo indeterminato. 
    In effetti, anche nei casi in cui codesta Corte costituzionale ha
ammesso la legittimita' di speciali contribuzioni verso lo Stato,  e'
pur sempre rimasto  fermo  che  tali  contribuzioni  si  correlano  a
situazioni temporalmente definite, e non possono divenire  il  regime
permanente  dei  rapporti  finanziari  (v.   in   particolare   sent.
193/2012). Di qui la  palese  illegittimita'  anche  in  relazione  a
questo specifico profilo. 
    La mancanza di base  statutaria  del  contributo  richiesto  alla
Regione e' base sufficiente  per  la  richiesta  di  declatatoria  di
illegittimita' costituzionale della disposizione impugnata. 
    Per tuziorismo, la ricorrente  Regione  fa  valere  in  subordine
anche le seguenti considerazioni. 
    Violato e' in primo luogo l'art. 116, comma 1,  Cost.,  il  quale
riconosce alle Regioni speciali forme  e  condizioni  particolari  di
autonomia, che non possono non  riguardare  -  data  la  formulazione
della disposizione - anche la autonomia finanziaria (sent. 82/2007). 
    L'art. 16, co. 3, lede la disposizione  in  quanto  riserva  alle
Regioni speciali - e, per quanto interessa qui, alla Regione Friuli -
Venezia Giulia - un trattamento deteriore rispetto a quanto vale  per
le Regioni ordinarie (v. l'entita' dei tagli di cui all'art. 16,  co.
2, e all'art. 16, co. 3). 
    L'irragionevolezza  del   trattamento   deteriore   si   apprezza
considerando che  queste  differenziazioni  operano  in  un  contesto
normativo stabile, quanto alle funzioni, per  le  Regioni  ordinarie,
mentre   e'   aumentato   il   concorso   specifico   della   Regione
Friuli-Venezia   Giulia   al   conseguimento   degli   obiettivi   di
perequazione e di  solidarieta'  e  all'assolvimento  degli  obblighi
derivanti dall'ordinamento europeo e dal patto di stabilita' interno.
Si  rammenta  qui  il  comma  152  dell'articolo  1  della  legge  di
stabilita' per il 2011 (legge 220/2010), secondo  cui  "nel  rispetto
dei principi indicati nella legge 5 maggio 2009, n. 42,  a  decorrere
dall'anno   2011,   la   regione   autonoma   Friuli-Venezia   Giulia
contribuisce all'attuazione del federalismo fiscale, nella misura  di
370 milioni di euro annui, mediante: a) il pagamento di una somma  in
favore dello Stato; b) ovvero la rinuncia alle  assegnazioni  statali
derivanti dalle leggi di settore, individuate nell'ambito del  tavolo
di confronto di cui all'art. 27, comma 7, della citata  legge  n.  42
del  2009;  c)  ovvero  l'attribuzione  di  funzioni   amministrative
attualmente esercitate dallo Stato, individuate mediante accordo  tra
il Governo e la regione, con oneri a carico  della  regione.  Con  le
modalita' previste dagli articoli 10  e  65  dello  Statuto  speciale
della regione Friuli-Venezia Giulia, di cui alla legge costituzionale
31 gennaio 1963, n. 1, lo Stato e la regione definiscono le  funzioni
da attribuire".  Il  trattamento  gravoso  riservato  alle  autonomie
speciali, e  tra  esse  alla  ricorrente  Regione,  non  puo'  essere
giustificato sulla base della considerazione della relativa  maggiore
ampiezza - rispetto alle Regioni ordinarie - delle  risorse  ad  esse
riservate.  Tale  maggiore  ampiezza  infatti  e'  il  frutto   delle
valutazioni dell'ordinamento costituzionale dello Stato, e  non  puo'
essere alterata se non seguendo le vie costituzionalmente prescritte:
le quali, del resto, esistono, 
    E' poi da evidenziare che,  anche  se  la  autonomia  finanziaria
intesa come disponibilita' di risorse sufficienti  ad  esercitare  le
proprie attribuzioni costituzionali, e come  effettiva  capacita'  di
spesa, va valutata nel complesso,  e  che  "contenimenti"  transitori
delle spese non sono necessariamente incostituzionali (secondo quanto
risulta ad esempio, in ordine  ai  vincoli  derivanti  dal  patto  di
stabilita', dalla sent. 284/2009), tuttavia, se non si vuole  privare
l'art. 119 Cost. e,  per  il  Friuli  -  Venezia  Giulia,  l'art.  48
Statuto,   della   capacita'   di    fungere    da    parametri    di
costituzionalita',  occorre  riconoscere  che  singoli  provvedimenti
normativi (gli unici contro i quali - ex art. 127 Cost. - la  Regione
puo' reagire, ed entro termini tassativi) possano essere sindacati e,
se  del  caso,  censurati,  anche  alla   luce   di   altri   singoli
provvedimenti, l'insieme dei quali si dimostra lesivo  dell'autonomia
finanziaria regionale. 
    Nel caso, la Regione si trova nella condizione di  affermare  che
l'ulteriore "taglio" di risorse, in una con le riduzioni della  legge
220/2010, determina la incostituzionalita'  dell'art.  16,  comma  3,
anche in quanto impone riduzioni  consistenti  alla  spesa,  tali  da
pregiudicare  l'assolvimento  delle  funzioni   pubbliche   ad   essa
attribuite, in violazione dell'art.  119  Cost.  (v.  soprattutto  il
principio di corrispondenza tra risorse e funzioni di cui al comma 4:
"Le  risorse  derivanti  dalle  fonti  di  cui  ai  commi  precedenti
consentono ai Comuni, alle Province, alle Citta' metropolitane e alle
Regioni  di  finanziare  integralmente  le  funzioni  pubbliche  loro
attribuite") e dell'art. 48 Statuto. 
    Le  misure  di  stabilizzazione   finanziaria   che   non   siano
quantificate in  stretta  relazione  ai  fabbisogni  di  spesa  della
Regione, anche a  fronte  della  variabilita'  del  gettito  ad  essa
attribuito, pregiudicano la possibilita' che la stessa sia  in  grado
di finanziare il complesso delle proprie funzioni e, in  particolare,
riesca ad assicurare sul  proprio  territorio  la  soddisfazione  dei
livelli base delle prestazioni inerenti a diritti fondamentali  della
persona demandati alla sua cura. 
    A  parere  della  Regione,  tale  vizio  rileva  gia'  sul  piano
astratto, per il  solo  fatto  che  lo  Stato  omette  ogni  tipo  di
valutazione nel merito del fabbisogno di spesa. 
    Secondo la Regione, al contrario, tale indagine costituirebbe  il
necessario presupposto per operare contenimenti finanziari  anche  di
natura  temporanea  nell'ambito  del  coordinamento   della   finanza
pubblica, dovendo questi essere espressi sulla quota di  risorse  che
eccedono   il   livello   di   fabbisogno   di   spesa    considerato
incomprimibile. 
    Diversamente  accade  agli  enti  finanziati  con   trasferimenti
statali, la' dove lo Stato  compie  una  valutazione  di  adeguatezza
all'atto del trasferimento delle risorse ovvero della quantificazione
dell'aliquota di spettanza. 
    La  quantificazione  del  livello  di   fabbisogno   strettamente
necessario, in tale contesto, non costituirebbe a  ben  vedere  parte
del tema di prova  richiesto  alla  Regione  che  ricorre  contro  il
provvedimento di contenimento, bensi' un presupposto strutturale  del
contenimento stesso che  condiziona  esplicitamente  la  legittimita'
della misura. 
    Non sono, dunque, legittime misure di contenimento  che  riducono
la capacita' di spesa della Regione e la sua  autonomia  di  entrata,
senza  alcuna  considerazione  dei  livelli  di   spesa   minimi   da
finanziare. 
    E' da sottolineare che dal 2011  al  2014  la  contrazione  della
spesa imposta alla Regione  e'  aumentata  del  422,9%  e  quella  di
entrata del 388,9%. Nel 2014 la Regione avra' circa il 17,69% in meno
di risorse disponibili per impegni di spesa rispetto a quelle su  cui
poteva contare nel 2010. 
    Anche  letto  alla   luce   dell'art.   3   della   Costituzione,
l'incremento annuo e  il  valore  assoluto  dei  tagli  imposti  alla
Regione e' del tutto irragionevole. 
7)  Illegittimita'  costituzionale  dell'art.   17,   comma   5,   in
connessione con l'illegittimita' costituzionale dei commi 1, 2,  3  e
4. 
    L'art. 17 e' dedicato, come espressamente ricorda il  suo  titolo
al Riordino delle province e loro funzioni.  Esso  non  si  riferisce
direttamente alle Regioni a statuto  speciale,  dal  momento  che  il
comma 1 precisa che  "tutte  le  province  delle  regioni  a  statuto
ordinario esistenti alla data  di  entrata  in  vigore  del  presente
decreto sono oggetto di riordino sulla base dei criteri e secondo  la
procedura di cui ai commi 2 e 3" (enfasi aggiunta). 
    Tuttavia, in pratica esso riguarda anche le  autonomie  speciali,
con l'eccezione delle Province autonome di Trento  e  di  Bolzano,  e
dunque della stessa Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol.  Stabilisce
infatti il comma 5 che "le Regioni a statuto speciale, entro sei mesi
dalla data di entrata in vigore  del  presente  decreto,  adeguano  i
propri ordinamenti ai principi  di  cui  al  presente  articolo,  che
costituiscono principi dell'ordinamento  giuridico  della  Repubblica
nonche'  principi  fondamentali  di   coordinamento   della   finanza
pubblica". 
    Non vi e' dubbio percio' che le  disposizioni  in  questione,  in
quanto  pongono  un  obbligo  di  adeguamento  anche   alle   Regione
Friuli-Venezia Giulia, siano invasive della  sua  competenza,  e  che
essa sia  pienamente  legittimata  a  farne  valere  l'illegittimita'
costituzionale.   Esse    dovrebbero    provvedere    ad    applicare
"autonomamente" nel proprio  territorio  lo  stesso  procedimento  di
riordino che vale per le altre regioni, con  minime  possibilita'  di
adattamento. 
    Ma, in primo luogo, sono proprio tale "principi"  ad  essere,  ad
avviso della ricorrente Regione, completamente illegittimi, e la loro
illegittimita' si riverbera  evidentemente  sui  vincoli  posti  alla
ricorrente Regione dal comma 5. Prima di esporre le ragioni  di  tale
illegittimita', tuttavia, conviene illustrare le norme  previste  dal
decreto-legge impugnato. 
    Prescrive il comma 2 dell'art. 17 che (fatte  salve  le  province
nel cui territorio si trova il comune capoluogo di regione  e  quelle
confinanti  solo  con  province  di  regioni  diverse  da  quella  di
appartenenza e con una delle province soppresse per  divenire  citta'
metropolitane) "il Consiglio dei  ministri  determina,  con  apposita
deliberazione, da adottare su proposta dei  Ministri  dell'interno  e
della  pubblica  amministrazione,  di  concerto   con   il   Ministro
dell'economia e delle finanze, il riordino delle province sulla  base
di requisiti minimi, da individuarsi nella dimensione territoriale  e
nella popolazione residente in ciascuna provincia". 
    Il comma 3 dispone poi che "il Consiglio delle  autonomie  locali
di  ogni  regione  a  statuto  ordinario  o,  in  mancanza,  l'organo
regionale di raccordo tra regioni  ed  enti  locali,  entro  settanta
giorni dalla  data  di  pubblicazione  in  Gazzetta  Ufficiale  della
deliberazione di cui al  comma  2,  nel  rispetto  della  continuita'
territoriale  della  provincia,  approva  una  ipotesi  di   riordino
relativa  alle  province  ubicate  nel  territorio  della  rispettiva
regione e la invia alla regione medesima entro il giorno successivo". 
    Ma  l'ipotesi  di  riordino  cosi'  approvata  non  e'  realmente
necessaria, dal momento che "anche in mancanza della trasmissione" di
tale ipotesi  "trascorsi  novantadue  giorni  dalla  citata  data  di
pubblicazione, ciascuna regione trasmette al Governo, ai fini di  cui
al comma 4, una proposta  di  riordino  delle  province  ubicate  nel
proprio territorio, formulata sulla base dell'ipotesi di cui al primo
periodo", fermo restando che "il riordino deve essere effettuato  nel
rispetto dei requisiti minimi di cui al citato comma  2".  Sempre  il
comma 3 prevede che sia le (eventuali) ipotesi  che  le  proposte  di
riordino tengano conto "delle eventuali iniziative comunali  volte  a
modificare le  circoscrizioni  provinciali  esistenti  alla  data  di
adozione della deliberazione di cui al comma 2". 
    Si e' detto come le ipotesi di riordino elaborate  dal  Consiglio
delle autonomie locali siano meramente eventuali: ma ugualmente  deve
dirsi anche delle "proposte di riordino" delle Regioni. 
    Se infatti il primo  periodo  del  comma  4  dispone  che  "entro
sessanta giorni dalla data  di  entrata  in  vigore  della  legge  di
conversione del presente decreto, con atto legislativo di  iniziativa
governativa le province sono riordinate  sulla  base  delle  proposte
regionali di cui al comma 3",  provvede  poi  il  secondo  periodo  a
precisare che "se alla data di  cui  al  primo  periodo  una  o  piu'
proposte di riordino delle regioni non sono pervenute al Governo,  il
provvedimento legislativo di cui al citato primo periodo  e'  assunto
previo parere della  Conferenza  unificata  di  cui  all'art.  8  del
decreto  legislativo  28  agosto   1997,   n.   281,   e   successive
modificazioni, che si esprime entro dieci  giorni  esclusivamente  in
ordine al riordino delle province ubicate nei territori delle regioni
medesime. 
    Dal complesso della normativa citata si deduce: 
        - che la procedura disposta dall'art. 17 decreto-legge n.  95
del  2012  si  fonda  su  snodi  procedimentali  eventuali  e   snodi
procedimentali ineliminabili; 
        - che una specifica iniziativa dei Comuni non e' prevista ne'
come snodo eventuale ne' come snodo necessario; 
        - che l'ipotesi di riordino  del  Consiglio  delle  autonomie
locali e la proposta della Regione costituiscono snodi eventuali; 
        - che il  procedimento  essenziale  per  la  revisione  delle
circoscrizioni provinciali e' costituito dalla  previa  deliberazione
dei criteri da  parte  del  Consiglio  dei  ministri  (nel  frattempo
approvati con deliberazione del 20 luglio 2012), dalla  presentazione
del disegno di legge di riordino da parte dello stesso Consiglio  dei
ministri, dal parere della Conferenza unificata e dalla  approvazione
della legge da parte del Parlamento. 
    In altre parole, si tratta di un procedimento  che  al  fondo  e'
totalmente diretto dal centro, e precisamente dal Governo,  il  quale
stabilisce i criteri - in pratica  precostituisce  il  disegno  delle
nuove province - e presenta il disegno di legge. 
    Come si e' detto, la procedura sopra descritta non  e'  destinata
ad applicarsi nel territorio  della  Regione  Friuli-Venezia  Giulia,
titolare di potesta' legislativa primaria in materia  di  ordinamento
degli enti locali ai sensi dell'art. 4, numero 1-bis), dello  statuto
speciale: e, come precisamente stabilito dall'art. 8 delle  norme  di
attuazione dello statuto di cui al d.lgs 9/1997, in tale materia  "e'
ricompresa   la   revisione   delle    circoscrizioni    provinciali,
l'istituzione di nuove province e la loro soppressione, su iniziativa
dei comuni, sentite le popolazioni interessate". 
    Ora, poiche', come sopra esposto, in base al comma 5 dell'art. 17
le  Regioni  a  statuto  speciale  dovrebbero   adeguare   i   propri
ordinamenti  "ai  principi  di  cui   al   presente   articolo,   che
costituiscono principi dell'ordinamento  giuridico  della  Repubblica
nonche'  principi  fondamentali  di   coordinamento   della   finanza
pubblica". 
    Ora, pur non essendo del tutto chiaro che cosa tale  disposizione
consideri "principi", e' pero'  evidente  che  alla  Regione  risulta
imposto  un  dovere  di  adeguamento   in   termini   sostanzialmente
corrispondenti a quanto previsto dai commi 1, 2, 3 e 4, cioe' con una
procedura guidata  dall'alto,  da  svolgersi  entro  una  cornice  di
criteri predefiniti, nella quale l'iniziativa comunale  non  potrebbe
rappresentare ne'  un  presupposto  indispensabile  ne'  un  elemento
giuridicamente condizionante. 
    La Regione Friuli-Venezia Giulia ritiene  che  tale  vincolo  sia
costituzionalmente  illegittimo,  sia  per  ragioni  attinenti   alla
illegittimita' costituzionale del meccanismo previsto dai commi da  1
a  4,  in  relazione  al  parametro  di  cui   all'art.   133   della
Costituzione, sia per l'illegittimita' del vincolo posto in relazione
al parametro di cui  all'art.  8  delle  norme  di  attuazione  dello
statuto di cui al d.lgs  9/1997,  sopra  citate,  sia  in  quanto  in
realta' le disposizioni alle quali la Regione dovrebbe attenersi  non
costituiscono (al contrario di quanto affermato dal comma 5 dell'art.
17) ne' principi dell'ordinamento giuridico ne' principi fondamentali
di coordinamento della finanza pubblica. 
    Di seguito si esporranno le  censure  relative  a  tali  distinti
profili. 
    E' in primo luogo palese che  la  procedura  di  revisione  delle
circoscrizioni provinciali prevista dall'art. 17 del decreto-legge n.
95 del 2012 non corrisponde affatto a quanto disposto dall'art.  133,
primo comma, della Costituzione,  secondo  il  quale,  "il  mutamento
delle circoscrizioni provinciali e la istituzione di  nuove  Province
nell'ambito di una Regione sono stabiliti con leggi della Repubblica,
su iniziativa dei Comuni, sentita la stessa Regione". 
    Il contrasto e' talmente palese che non sembra neppure richiedere
illustrazione. Per scrupolo noteremo qui che nella procedura prevista
dall'art. 133, primo comma, della Costituzione,  nella  quale  ha  un
ruolo  essenziale  e  dominante   l'iniziativa   dei   comuni,   come
riconosciuto dalla Corte nella sent.  347/1994,  laddove  scrive  che
l'art. 133  Cost.  obbliga  a  seguire  un  procedimento  legislativo
costituzionalmente rinforzato, anche dal e per il formale  intervento
dei Comuni. 
    Ne' questa scelta  e'  frutto  del  caso,  o  di  una  irriflessa
disattenzione. Al contrario  in  Assemblea  costituente  la  apposita
Commissione aveva proposto che l'iniziativa fosse della  Regione,  ed
il testo poi approvato e' il frutto di un  emendamento  di  cui  l'on
Monterisi  specifico'  il  senso  in  questi  termini:  "bisogna  che
l'iniziativa  parta  non  dall'alto  ma  dal  basso",   cioe'   dalle
"popolazioni interessate", cioe' dai "Comuni interessati". 
    Come si vede, e' l'opposto  del  procedimento  tutto  di  vertice
concepito dal legislatore. La consapevolezza del  radicale  contrasto
tra il percorso imposto dal decreto-legge  e  quello  previsto  dalla
Costituzione non poteva  sfuggire  allo  stesso  Governo,  che  nella
relazione al  disegno  di  legge  n.  3396  per  la  conversione  del
decreto-legge n. 95/2012 (spending review) ha sentito il  bisogno  di
avanzare una  spiegazione,  nei  termini  seguenti:  "anche  a  voler
prescindere  dalla  considerazione  che,  trattandosi   di   riordino
complessivo, non trova applicazione l'art. 133 della Costituzione, va
rilevato  in  ogni  caso  che  detto  articolo  e',  nella  sostanza,
rispettato visto che i Comuni sono pienamente  coinvolti  tramite  il
Consiglio delle autonomie locali". 
    Ora, la tesi che l'art. 133 sia rispettato "visto  che  i  Comuni
sono  pienamente  coinvolti  tramite  il  Consiglio  delle  autonomie
locali" appare palesemente infondata. Da un lato e' evidente  che  il
"Consiglio  delle  autonomie"  non  coincide  affatto  con  i  comuni
interessati, tanto che potrebbe persino decidere in  contrapposizione
alla loro espressa volonta'. Dall'altro, come sopra illustrato, nella
procedura di cui al decreto-legge n.  95  la  stessa  iniziativa  del
Consiglio delle autonomie e' del tutto eventuale, dato che in assenza
di un suo pronto adeguamento si procede  ugualmente.  Per  non  dire,
comunque, che la Costituzione non prevede  affatto  che  l'iniziativa
dei Comuni sia coartata da una previa fissazione di regole  e  limiti
da parte del Governo, che nell'art. 133 non e' neppure nominato. 
    La realta' e' che la stessa idea di un  generale  riordino  delle
province secondo criteri diversi da quello storico e'  estranea  alla
Costituzione: ma vi e' estranea non nel senso che la Costituzione non
se ne occupi (come lascia invece intendere il Governo quando  afferma
che "trattandosi di  riordino  complessivo,  non  trova  applicazione
l'art. 133 della Costituzione"), ma nel  senso  che  la  Costituzione
palesemente la esclude, prendendo a  riferimento  le  province  quali
esse sono, e disciplinando le regole per trasformare tale situazione. 
    Sarebbe paradossale che la stessa Costituzione che disciplina  in
quei termini la trasformazione delle province  singole  le  lasciasse
poi tutte alla merce'  del  legislatore  ordinario  -  o  peggio  del
Governo da esso investito del potere - che  semplicemente  stabilendo
soglie dimensionali elevate potrebbe al limite sopprimere di colpo la
grande maggioranza o  persino  la  totalita'  delle  province,  senza
rispettare il procedimento di revisione costituzionale, evidentemente
necessario a tale scopo. 
    L'illegittimita' del vincolo cosi' posto alla ricorrente  Regione
e'  altresi'  evidente  in  relazione  all'art.  8  delle  norme   di
attuazione di cui al d.lgs 9/1997, secondo cui nella materia  di  cui
all'art. 4,  numero  1-bis),  dello  statuto  speciale  (cioe'  nella
materia  dell'ordinamento  degli  enti  locali  "e'   ricompresa   la
revisione delle circoscrizioni provinciali,  l'istituzione  di  nuove
province e la loro soppressione, su iniziativa dei comuni, sentite le
popolazioni interessate"). 
    Intanto, e' evidente  che  tale  disposizione  che  riprende  con
qualche modifica l'art. 133, primo  comma,  Cost.,  ha  anche  valore
interpretativo  di  questo,  e  conferma  pienamente   quanto   sopra
affermato: conferma, cioe', che tale disposizione vale anche  per  la
"revisione delle circoscrizioni provinciali". 
    Ed  anch'essa  prescrive  che  alla  revisione  si   proceda   su
iniziativa dei comuni. 
    Inoltre, essa  aggiunge  il  vincolo  a  sentire  le  popolazioni
interessate: ed il sentirle ha un senso - evidentemente -  in  quanto
esse  possano  contribuire  ad  una  decisione  libera,  non  ad  una
decisione coartata da criteri rigidi prefissati al centro. 
    E' pure da ricordare che le norme di attuazione statutaria recate
dal d.lgs. 9/1997 sono state valorizzate dalla Corte  nella  sentenza
n. 230 del 2001, proprio nel senso che  esse  valgono  a  definire  e
precisare la materia "ordinamento degli enti locali", che e' oggi  di
competenza delle Regioni speciali (salve naturalmente le peculiarita'
della Valle d'Aosta e del Trentino-Alto Adige). 
    Dunque, non potrebbe la Regione Friuli-Venezia Giulia ottemperare
agli obblighi che le  derivano  dall'art.  17  qui  impugnato,  senza
trasgredire le regole di base con le quali lo Stato  ha  affidato  ad
essa la competenza  in  materia  di  revisione  delle  circoscrizioni
provinciali. 
    Di qui l'illegittimita' costituzionale della  disposizione  anche
sotto questo profilo. 
    Posto   dunque   che   il   dovere    di    adeguamento    appare
costituzionalmente  illegittimo,  in  relazione  al   suo   specifico
contenuto, sia in rapporto all'art. 133, primo comma,  Cost,  che  in
relazione all'art. 8 delle norme di  attuazione  di  cui  al  d.  lgs
9/1997, occorre ancora aggiungere che, se pure  i  contenuti  fossero
legittimi,  l'imposizione   di   tale   dovere   sarebbe   ugualmente
illegittima, in relazione al fondamento costituzionale che  ne  viene
allegato. 
    Afferma infatti l'art. 17, comma 5,  che  i  "principi"  da  esso
stabiliti - ai quali la regione dovrebbe adeguarsi -  costituirebbero
"principi  dell'ordinamento  giuridico   della   Repubblica   nonche'
principi fondamentali di coordinamento della finanza  pubblica".  Sia
consentito di notare, in primo luogo, che le due qualificazioni  sono
ripugnanti tra di  loro.  In  effetti,  i  principi  dell'ordinamento
giuridico sono principi sottostanti ad  interi  complessi  di  norme,
elementi di fondo che costituiscono architravi portanti dei complessi
normativi  ai  quali  si   riferiscono,   laddove   i   principi   di
coordinamento della finanza pubblica sono - benche' "fondamentali"  -
regole contingenti e  specifiche  dettate  dal  legislatore  per  far
fronte alla  situazione  finanziaria  del  momento:  le  due  nature,
dunque, reciprocamente si escludono. 
    In realta', pero',  le  regole  sopra  descritte  in  materia  di
revisione delle circoscrizioni provinciali non  sono  ne'  l'uno  ne'
l'altro: ne' principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica ne'
principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica. 
    Del principio dell'ordinamento giuridico  della  Repubblica  esse
non hanno alcuna caratteristica, trattandosi invece  di  mere  regole
dimensionali e procedurali finalizzate a pervenire ad  una  revisione
delle circoscrizioni provinciali, destinate ad esaurirsi in una unica
occasione. 
    Si deve invero evidenziare che esse coesistono  con  le  norme  -
affatto diverse - dell'art. 21 d.lgs.  267/2000  (testo  unico  degli
enti locali), le quali stabiliscono i criteri che  guidano  i  comuni
nell'esercizio   "dell'iniziativa   di   cui   all'art.   133   della
Costituzione",   volta   alla   "revisione    delle    circoscrizioni
provinciali". Ora, sembra evidente alla Regione ricorrente che -  con
riferimento al  medesimo  oggetto  -  non  possano  esservi  principi
dell'ordinamento giuridico contraddittori, e che, comunque,  principi
dell'ordinamento  giuridico  non  possano  ricavarsi  da  norme   che
derogano rispetto ad altre piu' generali. 
    A cio'  si  aggiunge  che  i  limiti  alla  potesta'  legislativa
primaria della Regione  ricorrente,  previsti  dall'art.  4  Statuto,
possono  essere  concretizzati  solo  da  leggi  formali  o  da  atti
equiparati, e non certo da atti amministrativi, quale  invece  e'  la
deliberazione del Consiglio dei  ministri,  alla  quale  il  comma  2
rimette la definizione dei limiti dimensionali minimi  delle  "nuove"
province, e che dovrebbe vincolare la Regione Friuli-Venezia  Giulia.
Da  questo  deriva  un  ulteriore  specifico  profilo  di  violazione
dell'art. 4 Statuto. 
    Le impugnate norme dell'art. 17 nulla hanno neppure dei  principi
fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, non  avendo  in
realta' alcun contenuto finanziario diverso dal presupposto  di  buon
senso - ma in realta' approssimativo e semplicistico - che un  numero
inferiore di province debba costare di meno di un numero maggiore. 
    Sembra chiaro che in questi termini non si tratta affatto  di  un
principio di  coordinamento  finanziario  -  del  quale  non  ha  ne'
l'oggetto ne' il  contenuto  proprio  -  ma  della  pura  e  semplice
interferenza in una scelta organizzativa delle istituzioni locali che
- sia pure all'interno di limiti finanziari complessivi eventualmente
definiti secondo i criteri riconosciuti legittimi da  codesta  ecc.ma
Corte costituzionale - spetta pienamente alla  Regione  ed  alle  sue
comunita' locali. 
    Si e' sino  a  qui  censurato  l'art.  17  in  relazione  al  suo
contenuto. 
    Scrupolo difensivo esige tuttavia che si faccia valere  anche  la
violazione dell'art. 77 Cost. in relazione ai requisiti di necessita'
ed  urgenza  che  soli  giustificano  il   ricorso   allo   strumento
eccezionale del decreto-legge. 
    Sembra chiaro, infatti, che per la sua stessa natura  la  materia
del riordino ordinamentale delle Province  -  per  di  piu'  con  una
procedura diversa da quella indicata in Costituzione  (il  che,  come
sopra  esposto,  costituisce  ragione  specifica  di   illegittimita'
costituzionale) richiede il procedimento legislativo ordinario, e che
solo  una  urgenza  estrema   ed   evidente   potrebbe   giustificare
l'anticipazione di qualche singolo aspetto del procedimento  con  uno
strumento di urgenza. 
    D'altronde, il vizio  di  procedura  e'  collegato  al  vizio  di
contenuto. E' evidente, ad esempio, che la ragione  per  la  quale  i
criteri del riordino non sono stati stabiliti con la legge (sia  pure
ordinaria, e non costituzionale, come il  ricorso  ad  una  procedura
diversa da quella  prevista  dall'art.  133  richiederebbe)  consiste
proprio nell'uso del decreto-legge, la cui rapida elaborazione non ha
consentito una loro adeguata ponderazione. 
    Ne' basta, ad attestare l'urgenza, l'uso di termini relativamente
brevi per le diverse tappe previste. Infatti, il difetto  di  urgenza
sta nella sostanziale intraducibilita' del riordino  in  immediati  o
anche solo accertabili risparmi finanziari, essendo chiaro invece che
lo stesso processo di riordino, con i suoi adempimenti, sara'  invece
causa di immediate spese e di immediate  disfunzioni  collegate  alla
transizione. 
8) Illegittimita' costituzionale dell'art. 16, comma 9. 
    L'art. 16, comma 9, rubricato Riduzione della  spesa  degli  enti
territoriali  dispone   che   "nelle   more   dell'attuazione   delle
disposizioni di riduzione e razionalizzazione delle Province e' fatto
comunque divieto alle stesse di procedere ad assunzioni di  personale
a tempo indeterminato". 
    La norma  non  e'  richiamata  come  applicabile  alle  autonomie
speciali dall'art. 24-bis, di  modo  che  se  ne  dovrebbe  escludere
l'applicabilita' alla Regione Friuli-Venezia Giulia.  Ove  invece  lo
fosse,  essa   sarebbe,   ad   avviso   della   ricorrente   Regione,
incostituzionale. 
    In primo  luogo,  essa  appare  esplicitamente  collegata  quanto
stabilito nel successivo art.  17  in  relazione  al  riordino  delle
Province.  Dunque,   la   lamentata   illegittimita'   costituzionale
dell'art. 17 si riverbera anche sul comma 9 dell'art. 16. 
    Se anche fosse legittimo il processo di riordino di cui  all'art.
17, ugualmente il comma 9 dell'art.  16  realizzerebbe  una  indebita
compressione  dell'autonomia  regionale,  con  riferimento  ai   gia'
invocati parametri statutari sia in materia di ordinamento degli enti
locali che in materia di finanza  locale,  nonche'  una  compressione
della stessa autonomia delle Province. 
    Esso, in  particolare,  non  potrebbe  giustificarsi  (come  pure
asserito  dal  comma  1  dello  stesso  art.   16)   come   principio
fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, ai sensi  degli
articoli 117, terzo comma e 118, secondo comma,  della  Costituzione.
Si tratta infatti di  disposizione  specifica  e  puntuale,  che  non
potrebbe avere alcun ulteriore svolgimento da  parte  della  Regione.
Inoltre,  essa  e'  priva  di  qualunque   contenuto   specificamente
finanziario, e di qualunque correlazione con lo stato  complessivo  o
persino settoriale con la finanza regionale e provinciale. 
    Inoltre, la competenza  primaria  della  Regione  in  materia  di
ordinamento degli enti locali puo'  essere  statutariamente  limitata
solo  dai  principi  dell'ordinamento  e  dalle  riforme   economiche
sociali, ai quali certo non corrisponde la predetta disposizione.